Attori, comparse e sceneggiatori
L’Egitto è un paese dalla realtà non facilmente comprensibile, molto liquido da un punto di vista sociale, centrale per molti versi per l’equilibrio regionale.
E’ ormai chiaro, come del resto fin dal principio si era sospettato tra le pagine di questo giornale, che le tanto decantate Primavere Arabe hanno spalancato le porte a crisi devastanti in Medioriente e Nord Africa e che purtroppo, i movimenti che hanno scoperchiato situazioni magmatiche non sono stati sempre cristallini; diversi si sono rivelati gli attori interessati alla destabilizzazione dei diversi assetti politici nazionali.
Per guardare all’Egitto di oggi bisogna fare un passo indietro e tornare ai sommovimenti del 2011. La caduta di Mubarak è avvenuta a un certo punto, quasi come un’esplosione improvvisa, dalla quale, dopo che il fumo si è diradato, ne sono usciti diversi protagonisti: i Fratelli Musulmani, i Salafiti, i laici indipendenti e di sinistra e i militari, mai scomparsi veramente dalla scena anche con Morsi.
Due cose però la storia ci insegna: primo, non esiste un islam a-politico; Il raìs credeva il contrario, scegliendo di puntare sui salafiti per togliere adepti alla fratellanza, ma al primo varco, dopo anni di attesa, il vuoto è stato colmato; secondo, la religione è una leva di manipolazione, perciò lo stato deve essere laico, come laici devono essere i movimenti sindacali che fanno opposizione ai governi e le università. I finanziamenti che arrivano da paesi dove l’Islam è oscurantista sono pericolosi, poiché uniscono diversi progetti: crescita certamente, ma anche influenza, potere e capacità di muovere.
La salita di Al Sisi ha tolto il potere ai Fratelli Musulmani e in parte ai Salafiti; i laici, gli indipendenti, non avendo unità, in realtà sono stati subito travolti da macchine organizzative più esperte, capaci e con maggiori mezzi a disposizione.
Ora quindi nello scenario di uno dei paesi più importanti del Nord Africa abbiamo una situazione molto fluida dove si muovono i militari al potere, islamisti scontenti, laici in cerca di un programma, i jihadisti del Sinai e attori internazionali attenti.
I Fratelli Musulmani non sono mai stati dei santi nella storia, furono loro in passato ad attentare alla vita al Presidente Nasser, sono stati loro insieme ai salafiti, nella piccola e recente parentesi di governo, a volere la sharìa come legge nella nuova Costituzione e sono loro che pongono l’Islam come guida nella vita, sia del cittadino che dello stato.
Perciò la parte laica delle sollevazioni del 2011 rimase spiazzata quando la politica statunitense appoggiò Morsi e la fratellanza.
Ma gli Ihwan sono bravi nel sociale e soprattutto, hanno un respiro internazionale. La loro politica sociale è rivolta alle fasce povere, ai disoccupati; sono milioni gli egiziani che ricevono dai più ricchi della fratellanza, assistenza, beneficenza e donazioni. Addirittura in molti villaggi essi si assumono la responsabilità di educare i giovani: gli adolescenti vengono inquadrati in un contesto che fornisce loro istruzione, una cerchia sociale, una visione del mondo, attività individuali e di gruppo.
In alternativa, la confraternita è in grado di reclutare persone uscite dal loro ambiente: studenti provenienti dalla campagna, lavoratori emigrati e dottorandi stranieri.
Gli Iwhan ritengono che le società odierne non siano pienamente musulmane e occorre rimediare assumendo il potere.
Morsi addirittura, per compiacere i salafiti, liberò alcuni jihadisti che velocemente si andarono ad unire alle bande che imperversano nel Sinai.
Il progetto dei fratelli è totale: riforma/rifondazione dell’individuo, della famiglia, della società e dello Stato.
Gli Ihwan sono presenti ovunque: in Turchia, in Tunisia, in Algeria, in Libia, in Arabia Saudita, in Kuwait, in Palestina, (Hamas è vicinissima ai Fratelli), negli Emirati Arabi e in Qatar.
Il gruppo sta muovendo passi verso il potere in diversi paesi con seri problemi sociali ed economici e ha bisogno di ingenti finanziamenti. E qui arriva il Qatar. Gli Emirati, la Giordania, il Kuwait, la stessa Arabia Saudita, hanno accusato diverse volte i fratelli di avere orchestrato contestazioni interne. Il pericolo di ricattare paesi minacciando di usare le loro filiali internazionali per scatenare disordini, con la confraternita è reale.
I fratelli Musulmani in Egitto sono stati enormemente sostenuti e finanziati dal Qatar, il quale, attraverso di essi, sta tentando di adottare un ruolo leader nel mondo arabo. Questo paese è l’unico dopo l’Arabia Saudita ad avere adottato il Wahhabismo (interpretazione estremamente rigorosa dell’Islam) come religione di Stato. L’opposizione non è tollerata, i partiti politici non esistono e non sono previsti in Costituzione, a nessuno è permesso di impegnarsi in attività politiche e infine, il Qatar ha una lunga tradizione nella concessione di asilo agli islamisti radicali in esilio e ai predicatori provenienti da altri paesi musulmani.
Ma ha un’arma eccezionale questo stato: la tv di Aljazeera. Diversi giornalisti di questa ricchissima emittente sono stati processati in Egitto; si, ma si ricordi che i fratelli musulmani sono stati deposti da Al Sisi e l’innocenza non è da dare per scontata.
Se il Qatar appoggia gli inquieti Ihwan, l’Arabia Saudita non ne è felice.
In più la partita per il gas da vendere e far arrivare in Europa è tutta aperta e combattuta.
Ma gli Al-Saud non stanno a guardare.
Se in Egitto il braccio politico della Fratellanza è il Partito Libertà e Giustizia, Al Nur lo è per l’organizzazione al Da’wa al-Salafiyya, Salafiti appunto.
Al Salafiyya è l’organizzazione ombrello che in Egitto raggruppa la quota più consistente dei gruppi salafiti. Esso nasce ufficialmente da una branca dell’allora militante al-Gama’ Islamiyya, intorno agli anni ’80 grazie ai finanziamenti dei Sauditi. Si propose fin da subito come il movimento più attivo per la diffusione del credo Wahhabita in Egitto. Inizialmente venne vietato all’organizzazione (a differenza dell’attivismo dei Fratelli) di partecipare alla vita politica di tutti quegli stati per definizione non islamici e paradossalmente questa scelta ha portato a una grande espansione di al-Salafiyya, perché a-politica. Per tale motivo Mubarak vedeva con occhio più morbido la Al-Salafiyya piuttosto che gli Ihwan.
Ma quando si presentò il varco istituzionale con la deposizione del raìs, nacque subito il braccio al Nur per entrare a far parte del gioco politico. Con Al Nur, anche i Sauditi, per procura, irrompono nel panorama istituzionale egiziano.
Al Nur mette in campo tutto il suo efficiente sistema di comunicazione sviluppato negli anni attraverso moschee, predicazioni, palchi, canali satellitari, network di charities e in poco più di sei mesi diventa la seconda forza politica del paese. Mursi nomina alcuni del partito come consiglieri presidenziali: lo scopo è ottenere una maggioranza islamista in parlamento.
Tra i due si fa a gara a chi vuole la legge islamica più tradizionale.
Del resto il wahabismo dei sauditi è terribilmente oscurantista.
Anche i salafiti hanno le loro leve nel sociale, però tra le fasce di reddito più basse; essi offrono attraverso una rete di charities, nuovi servizi come le cliniche mobili, la distribuzione dei sussidi per la carne ed è proprio sul lavoro sociale e su un’economia basata sul welfare che il partito sta puntando tutto.
Quindi se da una parte al Nur, anzi al-Salafiyya discuteva di politica e di nomine coi Fratelli, dall’altra mandava in piazza la sua gente a chiedere la più ortodossa introduzione della legge islamica in Costituzione; e se in seguito alla destituzione di Morsi, il Partito non è stato in grado di trattenere tutti i salafiti dallo scendere in piazza per non essere falciati dall’esercito, è arrivato però poi a denunciare la “Fratellizzazione” dei sindacati, dei governatorati e delle istituzioni.
Al Nusra sarà l’unico partito ad avere potere di veto sulle decisioni dei militari sulla nomina del Primo Ministro.
In sintesi: Arabia Saudita e Qatar sul suolo egiziano non vanno proprio d’accordo.
In questa matassa un pensiero preoccupato va alle organizzazione laiche, incenerite da poteri molto più grandi e ben finanziati.
L’ultima piccola analisi è per il Sinai. Questa zona del paese, di enorme interesse geopolitico perché svolge la funzione di cuscinetto con Israele, era terra dei nomadi beduini, popolo storicamente indipendentista, attaccato alle sue tradizioni. Mubarak era, attraverso un sistema di nomine, la garanzia di equilibrio, indipendenza e controllo di questa parte d’Egitto.
Con la sua caduta si è generato un vuoto di potere che qui via via è andato ad essere occupato e infiltrato di elementi jihadisti, compromettendo ranghi e capacità decisionali delle figure venerabili di ogni tribù. Il sistema beduino ne esce danneggiato e Israele da quella parte non è più assicurato.
Difficile indicare senza ombra di dubbio da che parte, nella terra dei faraoni, siano il bene assoluto e il male assoluto; difficile, analizzando la situazione, giudicare se Al-Sisi sia il peggio che poteva capitare all’Egitto; di non facile analisi il fatto che la prestigiosa American University del Cairo abbia tra i suoi maggiori finanziatori dei sauditi e che tra i dipartimenti figuri il nome di un Principe Al Saud.
Infine, non semplice capire quali siano gli attori principali in questo paese, visto che da una parte c’è un potere militare con le sue galassie di informatori, agenti e forze di sicurezza che non è chiaro se obbediscano o meno solo a un unico padrone; dall’altra si trova un’opposizione estremamente articolata, “accompagnata” e partecipata da laici, fratelli e salafiti, più lontano ma non troppo, si intravedono le lunghe mani dell’Arabia Saudita e del Qatar e più in là, la traccia di una più che ambigua agenzia come la Oxford Analytic, interessata a studiare le forze in campo in Egitto.