Una mancanza di strategia ed autorevolezza stanno portando squilibri pericolosi

Il pantano libico è soltanto l’ultimo degli scenari critici scaturiti dalle guerre condotte dall’occidente. Guerre che per eliminare un problema ne hanno moltiplicati altri, riesumandone di antichi. Guerre che pur vinte hanno prodotto positività effimere. Il punto è il seguente: vincere sul campo, sbaragliare l’esercito nemico non è sufficiente. Occorre saper guidare e gestire la transizione affinchè il dispendio di risorse e uomini non venga vanificato. E tutto ciò non è avvenuto. Ci si è occupati di rovesciare regimi, foraggiare “primavere” ma si è clamorosamente steccata la seconda decisiva fase. Quando non ce ne si è addiritura lavate le mani, perché troppo gravosa, “sconveniente” in vista delle periodiche elezioni.

Ed ora che l’IS è entrato in Libia, nel paese si combatte una guerra civile tra fazioni per il controllo del petrolio e la conquista del potere per gestirne il ricavato. Quelle stesse fazioni che non si è provveduto a disarmare dopo la caduta di Gheddafi e che ora hanno gettato il paese nel caos più totale, annientato lo stato e trasformato la Libia in un colabrodo, dove passa di tutto senza filtri, essendo divenuto de facto la fogna del terrorismo islamico. Che scarica in direzione Italia. Il ministro Gentiloni si è lasciato sfuggire la disponibilità del Paese a intervenire in prima persona ma è stato stoppato immediatamente da Renzi alle prese col proprio personalissimo fronte interno. Ritirata (senza avanzata) strategica? Vedremo. Per ora si prende tempo. Intanto, la palla passa al Consiglio di sicurezza. La crisi libica ha aggiunto un ulteriore capitolo di orrore con l’orrendo assassinio di 21 cristiani egiziani per mano dell’Is ormai giunto ai confini dell’Europa. Il Consiglio potrebbe iniziare a prendere in considerazione la creazione di una forza di stabilizzazione, ma per ora probabilmente darà mano libera all’Egitto per i suoi attacchi aerei.
Ma per quanto tempo, gli egiziani si faranno carico da soli di ostacolare l’avanzata dell’IS?
Un intervento militare a tutto campo per imporre la pace oggi in Libia sarebbe assai rischioso per le democrazie occidentali, a fronte dei pericoli che il paese ci pone. Come sempre, si arriva tardi e si cerca di provvedere solo in situazione di estrema emergenza, quasi irrecuperabili, non solo dipomaticamente. Un’ azione di peace-keeping o di peace-enforcing sarebbe dovuta avvenire tempo addietro, appena conclusa l’operazione Nato.

Non si poteva né doveva consentire l’insorgere di una polveriera di questa portata a poche miglia marine dalla Sicilia. Arrivati a questo punto, un’azione militare avrebbe un livello di difficoltà elevatissimo per i seguenti motivi: le milizie “regolari” – e non solo i gruppi terroristici – non accetterebbero di sottomettersi a una forza militare esterna, anche targata Onu; si moltiplicherebbero verosimilmente atti di ritorsione contro i militari stranieri, che costringerebbero in poco tempo i governi intervenuti a ritirarsi sotto la pressione schiacciante dell’opinione pubblica. In democrazia, è più difficile fare guerre. Specie se queste guerre non vengono percepite come necessarie, se le popolazioni non si vedono in concreto aggredite. Ma dovremmo forse attendere una tragedia, missili pioverci sulla testa, metropolitane saltare per aria, per prendere coscienza del fatto che non solo a chiacchiere la guerra ci è stata formalmente dichiarata e non ci si può sottrarre? Pare di si.
Il problema principale della Libia resta l’impossibilità del Governo di garantire l’ordine pubblico. Da quando, nel 2011, la popolazione, con l’aiuto della Nato, ha deposto e ucciso il colonnello Gheddafi, gli scontri tra i vari gruppi armati sorti sulla scorta delle tante tribù che il raìs libico riusciva a tenere in mano, non hanno più avuto fine. Secondo uno studio compiuto dall’Institute for Economics and Peace, la Libia è tra i paesi che negli ultimi anni più sono regrediti in termini di stabilità. Ciò comporta una emorragia enorme di fuggiaschi in direzione Europa sulle tante carrette del mare gestite da trafficanti d’uomini senza scrupoli, non ultimi gli appena arrivati del neonato IS. Quelli che ormai hanno preso il controllo del porto di Derna, Sirte e puntano su Misurata e Tripoli, avanzando come nel burro. Sintomo preoccupante, che lascia presagire qualche scricchiolio di troppo tra le milizie governative, quasi che molti stiano passando dall’altra parte. Del resto questo clima di precarietà costante, quest’aria irrespirabile di morte e polvere favorisce il passaggio verso chi sembra attualmente “il più forte”. E non è un mistero per nessuno che l’IS ha una formidabile capacità di “farsi stato”, in Siria come in Iraq, assicurando i servizi minimi ai propri cittadini e assistenza. Componenti che nella Libia del dopo Gheddafi sono completamente sparite dalla circolazione. Ma perché questi guerriglieri si combattono per il controllo della Libia?  Occorre far prima una breve panoramica delle forze in campo, per capirci di più. In Libia non esistono solamente una milizia armata e l’IS che avanza come un fulmine, ma una pluralità di gruppi combattenti con caratteristiche specifiche. Vi sono, anzitutto, le milizie regionali composte da combattenti che hanno lottato contro il regime di Gheddafi. Attualmente essi si battono contro Tripoli per garantire gli interessi delle rispettive regioni d’appartenenza.

Le milizie regionali finiscono per scontrarsi di frequente con le milizie filogovernative. Dopo la caduta del Rais, infatti, i leader del Consiglio di transizione hanno capito che era estremamente difficile realizzare il disarmo delle varie milizie che avevano combattuto contro Gheddafi. Molto più semplice era, invece, il loro arruolamento. Questi gruppi armati, finanziati dal Governo locale, agiscono tuttavia in una logica di fedeltà ai loro comandanti piuttosto che al Consiglio di transizione, rendendo di fatto pericoloso il loro utilizzo.

Viene da chiedersi quali siano gli effetti collaterali di questo caos diffuso che sta attanagliando la Libia dalla caduta di Gheddafi.

Oltre alle drammatiche conseguenze in termini di vite umane sul territorio e sul mare, questa situazione disperata sta sconvolgendo l’economia libica, da sempre fortemente dipendente dall’esportazione del petrolio. Secondo gli ultimi dati forniti dalla National Oil Corp (Noc) la produzione giornaliera di greggio si aggira intorno ai 400 mila barili. Ed Eni e Repsol sbuffano.