Nonostante quanto ufficialmente trapeli e si evidenzi nei fatti di cronaca militare, il fenomeno Isis rappresenta una resa dei conti tutta interna al mondo arabo e scientemente agita lo spettro dell’Occidente da abbattere principalmente a fini di coesione interna e come polo d’attrazione.

È la dialettica tra sunniti e sciiti. Non si spiegherebbe altrimenti come bersaglio di questi banditi incappucciati siano dei “correligionari” arabi di paesi per l’appunto arabi. Su questa base va analizzata e interpretata la nuova fase di relazioni improntate a partnership e dialogo sancita dall’accordo sul nucleare all’Iran, che vede fortemente critico il governo d’Israele il quale ha buone ragioni per esserlo.

Innanzitutto perché non si può dimenticare che per anni Teheran ha agito in modo canagliesco nei confronti dell’Occidente e d’Israele per poi, con l’uscita di scena di Ahmadinejad cambiare repentinamente rotta. Ma ciò non può né deve far sì che si abbassi la guardia visto che – e in quest’ ottica Netanyahu ragiona – come repentinamente gli iraniani han cambiato atteggiamento nulla esclude che possano farlo di nuovo ritornando sulle posizioni precedenti.

Inoltre, visto che Teheran è pesantemente in ballo nella dialettica sciiti – sunniti, qualora le sue posizioni dovessero franare, ci si troverebbe a dover fronteggiare un integralismo assai più minaccioso. E di questi fattori, Israele è ben conscio, poiché, vista la vicinanza, ogni errore di valutazione e sottovalutazione di pericolo potrebbe essergli fatale.

Pertanto, temere un voltafaccia da parte di Teheran o considerare il fatto che gli scenari potrebbero mutare non sono approcci animati da intransigenza e pregiudizio, bensì dettate dalla lungimiranza e dalla prudenza richieste a chi occupa una posizione critica.

Basti pensare se lo stato islamico riuscisse a mettere le mani sull’Iran gli scenari che potrebbero aprirsi. Oppure se si giungesse a un patto all’interno dell’Islam cosa potrebbe avvenire. Tutti questi fattori vanno considerati se si vuole agire efficacemente contro le minacce presenti, senza però pregiudicare il futuro.

Intanto, nell’ambito della guerra all’Isis in Iraq, le milizie regolari di Baghdad e quelle sciite di Teheran giungono buone nuove. Il Pentagono proprio in questi giorni ha valutato in un 25/30% il terreno riconquistato all’Isis.

Non ancora abbastanza però, visto che la riconquista è ancora lungi dal determinare un deciso punto di svolta nell’andamento della controffensiva della coalizione internazionale. In negativo inoltre, va registrato che in questa azione culminata con l’importante caduta di Tikrit, città natale di Saddam, le milizie sciite contraddistintesi per inusitata ferocia han confermato l’inimicizia storica coi sunniti i quali parrebbero disprezzare maggiormente i miliziani sciiti rispetto ai guerriglieri del Califfo.

Il crescente ruolo delle milizie sciite, e dunque anche di Teheran, in Iraq che il premier al Abadi non sembra in grado di contenere, lo hanno messo in una posizione di imbarazzo tanto più marcata in quanto venutasi a creare alla vigilia dell’incontro di Camp David voluto da Obama per tranquillizzare le monarchie del Golfo in merito ai seguiti dell’intesa di Losanna sul nucleare iraniano, altro pegno.

Il richiamo del presidente americano all’importanza che le azioni anti-Califfato siano dirette e comunque coordinate attraverso l’Iraq – e non eterodirette da Teheran – è stata una chiara indicazione di rotta per l’iracheno al Abadi, sollecitato del resto anche a fare di più e di meglio sia in chiave militare che in termini politici e di rapporto con le tribù sunnite.
Al Abadi ha “ricevuto”, ma non gli sarà facile adeguarvisi. Ci vorrà tutta la sua abilità manovriera per barcamenarsi tra Teheran e Washington.

Il pericolo intravisto dagli Usa – e da Israele in maniera assai più netta per ovvie ragioni di vicinanza – è che come in altre occasioni la situazione possa sfuggire di mano e quando si tenta di servirsi di qualcuno che sprovveduto non è e sa benissimo cosa vuole, spesso e volentieri ciò accade. Ma c’è un terzo incomdo in questa situazione ed è la Russia, che ha ripreso le forniture militari all’Iran sospese nel 2010. Netanyahu è alla notizia andato su tutte le furie, riscontrando in ciò una ulteriore prova della fondatezza della sua “iranofobia”. E alla nota ufficiale che condannava il fatto ha dovuto sorbirsi anche la candida e beffarda risposta del Cremlino:”E perché mai non dovremmo vendere armi a chi vogliamo?”