La sorpresa di un trionfo totale
Trump sfonda di prepotenza la fatidica quota 270, colora il Congresso di “repubblicano” e ricaccia Hillary all’angolo. L’opinione pubblica resta perplessa, parte del mondo esulta, parte si interroga. La mazzata subita dal candidato democratico, data da tutti vincente annunciata sulla base dei sondaggi, è stata talmente sonora che ha lasciato tutti di stucco. Un crollo così verticale del partito democratico era davvero inatteso. Certo, dopo otto anni di dominio, è nelle cose un cambio d’indirizzo, ma nulla lasciava presagire che il vulcanico candidato repubblicano potesse imporre una svolta così netta al corso degli eventi.
Tutto pareva congiurare contro di lui. Diverse gaffe (forse persino studiate), toni ieratici quasi visionari e, forse, la chiave di volta di tutta la contesa: la capacità di sedurre le masse con lo slogan reaganiano “make America great again”, ossia l’intenzione di vendere un sogno, soddisfando le aspettative negate di larghe fasce di società ai margini e deluse dal sogno presentatogli precedentemente.
Un altro punto a favore di Trump è stato il proporsi come homo novus, campione alternativo espressione atipica del partito repubblicano, avendolo scalato dall’esterno. Non d’apparato come Clinton, “first lady d’arte”, da 30 anni nella stanza dei bottoni.
Per parte sua, Clinton non ha perso perchè “donna”, come ha lasciato intendere commentando la sconfitta, rifugiandosi dietro una comoda scusa buona solo ad autoassolversi. Bensì perchè “unfit”, incapace di creare un’empatia autentica tra sè, la propria proposta ed il popolo americano. Perché esponente di spicco di una politica fallimentare come quella di Obama (che con ripetuti endorsment le ha fatto più male che bene) e ipocrita, peccati non veniali e che un grande popolo non sacrifica sull’altare di un politically correct bigotto e inattuale.
Ha perso perché ha condotto una campagna povera di argomenti, incentrata sulla demolizione di un avversario, che di certo ha prestato il fianco, ma che non può essere assolutamente sufficiente per candidarsi a guidare la più grande democrazia del mondo.
Ha perso perché peggiore del suo avversario, forse non una cima, ma che ha soddisfatto assai meglio i succitati aspetti. E che soprattutto non ha rinnegato se stesso, presentandosi tale e quale gli americani lo conoscevano, al contrario di Hillary, che per piacere si è sforzata di dare un’altra immagine di sé, più alla mano ed empatica, con risultati scadenti e a tratti inquietanti.
Di certo, l’affermazione di Trump, candidato incandidabile solo qualche tempo fa, segna un enorme cambiamento nella concezione della politica presso gli americani. Il bigottismo sembra aver ceduto – non è dato sapere se definitivamente – il passo alla spregiudicatezza e alla “politically incorrectness”. Forse è solo una fase e non un passaggio definitivo verso qualcos’altro. O forse, tali licenze si riveleranno ad personam, consentite soltanto all’animale politico Trump, in virtù del suo innegabile carisma. Vedremo.
Intanto, il discorso della vittoria di Trump mostra come, una volta archiviato il successo, il neopresidente sia passato alla fase 2. Sotterrata l’ascia di guerra, ha fatto appello all’unità per il bene dell’America, ringraziato il proprio competitor per le congratulazioni di rito, facendone un breve panegirico, di rito anch’esso. Vale a dire, finita la campagna vittoriosa, è giunto il momento di mettersi all’opera. Ora, verosimilmente vedremo un altro Trump, non per questo altro da sé, ma di certo meno caricaturale, meno esasperato nelle uscite e nelle occasioni dovute non privo di un certo aplomb che richiede la carica.
Il sogno per cui gli americani gli hanno dato fiducia è un patto impegnativo, che richiede serietà e costanza. Fra tutte le felicitazioni ricevute, ipocrite o meno, spicca il messaggio di Putin, che sa di apertura. Del resto, lo stesso neopresidente statunitense, tagliato il traguardo, ha dichiarato che il suo mandato non sarà all’insegna dell’ostilità ma della collaborazione e della ricerca di una proficua sintonia su tutta la linea e a tutte le latitudini. Deformazione professionale da businessman? Forse. Quel che è certo è che mentre di Obama e dei suoi aspiranti prosecutori sapevamo ormai tutto e dovremo, in Europa ed Oriente fare i conti con le loro complicate eredità, di Trump dobbiamo scoprire ancora molto. Lasciateci almeno il gusto della sorpresa e la consolazione della speranza.