La campagna elettorale per le presidenziali americane rappresenta il confronto serrato tra due opposte weltanschauung, due modi di intendere gli Usa in patria e nel mondo
La dicotomia, vera e propria idiosincrasia dell’uno – Trump – per l’altra – Clinton – è palese e ne è fedele espressione l’indole antitetica dei due personaggi.
Il primo, caustico, dissacratorio, vulcanico e “metre a gaffeur” professionista – nonché uomo di successo negli affari – esprime tutto il malcontento che serpeggia in molti ambienti americani – conservatori o meno – proponendo un nuovo “american dream”, una “new era” in grado di restituire agli Stati Uniti il proprio ruolo di paese guida in un mondo multipolare, rispolverando Reagan e il suo motto “Let’s Make America Great Again”, autentico refrain di tutta la campagna trumpiana.
La seconda, icona del politically correct border line, mix imperiale di bigottismo e falsità, a tratti persino ridicolo, stante il sex-gate che riguardò il marito da presidente (e perciò anche lei), veste i panni del politico di professione (ex segretario di stato) al cospetto di uno sprovveduto parvenù. La sola, a sentir lei – al pari dei vari “soloni” in giro per il mondo che le si sono genuflessi pur di osteggiare l’ eccentrico e fonte d’imbarazzi candidato repubblicano – in grado di rimettere sulla giusta rotta la nave statunitense. Pena il naufragio.
In realtà, proprio dare continuità alla fallimentare azione democratica di questi otto anni sembra essere una buona maniera per finire in braccio al disastro. Barack Obama è il primo sostenitore di Clinton, quasi più del marito, indi per cui è lecito attendersi in politica estera una sostanziale continuità con la disastrosa condotta tenuta negli ultimi anni dall’amministrazione uscente. Ergo, una prosecuzione pericolosa del confronto muscolare con Mosca, che ha de facto riprecipitato l’ Occidente nella guerra fredda. Inoltre è presumibile che venga proseguita l’ambigua – e fallimentare in ottica di pace e sicurezza – politica di lotta al terrorismo nella stessa maniera in cui è stata intesa negli ultimi anni, che hanno visto il rovesciamento pilotato – a volte tentato a volte riuscito – di regimi dispotici che pure assicuravano condizioni di vita migliore ai propri popoli e interlocutori affidabili all’Occidente. In politica interna, aumento delle tasse che gli è valso il sostegno dell’opposizione interna capitanata da Sanders e una politica del lavoro e investimenti che lascia dubbi sulla sua effettiva sostenibilità.
Dal canto suo, Trump impersona l’azzardo di chi vuole in primo luogo por fine alla catena di mandati democratici dalle premesse – e promesse – non mantenute. La strategia ricorda assai quella sbandierata anni addietro da Berlusconi in Italia, mirante alla drastica riduzione delle tasse che favoriscano investimenti e diano impulso a crescita e occupazione. La politica di sicurezza, stando alle dichiarazioni del repubblicano che hanno distinto tutta la sua campagna, sarebbe a doppio binario. All’interno e all’esterno.
Per quanto concerne l’interno, lotta strenua agli ingressi da sud – frontiera col Messico – con espulsioni e difesa assoluta del secondo emendamento, cardine della cultura americana. In politica estera, guerra totale all’Isis e al terrorismo internazionale di qualsiasi taglia e colore e politica di dialogo con la Russia per scongiurare nuove pericolose frizioni che potrebbero trascinare il mondo in guerra. Come questo si combini alla dichiarata politica di parziale disimpegno statunitense non è dato sapere o non è chiaro. Si presuppone che ciò possa avvenire tramite un richiamo maggiore alla responsabilità e al coinvolgimento degli alleati storici occidentali. Votare Clinton pertanto significa in soldoni approvare l’operato di Obama come positivo o quantomeno considerarlo come la ricetta migliore fra quelle possibili.
Scegliere Trump significa optare per una svolta – non priva di rischi – sperando che questa comporti in ambito internazionale un chiarimento dei ruoli, una diradazione delle nebbie che avvolgono la politica statunitense in medio oriente e una distensione dei rapporti con la Russia, pericolosamente giunti ai minimi storici dai tempi dell’Urss, con tanto di posizionamento di missili e truppe al confine. In definitiva, non siamo di fronte ai migliori candidati possibili ma, senza dubbio, optare per l’uno o per l’altro sarà tutt’altro che indifferente.