Come è noto in Italia il riconoscimento di alcune libertà fondamentali, tra le quali quella di liberamente associarsi e di manifestare il proprio pensiero, ha rappresentato una delle più grandi conquiste del secondo dopoguerra, strettamente legata all’entrata in vigore della Carta costituzionale nel 1948[1].

            In particolare, e senza pretesa di esaustività, si può dire che ciò che oggi consideriamo del tutto normale, vale a dire la presenza nell’ordinamento giuridico di “enti” differenti dallo schema societario – più orientato all’esercizio “puro” di attività economica e di impresa – costituisce il risultato di un cammino concettuale e giuridico che si è basato, anzitutto, sul concetto di riconoscimento delle libertà anzidette come addirittura preesistenti rispetto alla organizzazione statuale e, conseguentemente, derivante da diritti fondamentali che lo Stato, appunto, limitandosi a riconoscerli, considera intangibili e connaturati alla sfera di libertà individuale insopprimibile in un ordinamento democratico.

            Ecco quindi che gli enti del primo libro del Codice civile (associazioni, fondazioni e comitati) la cui disciplina è contenuta negli articoli da 14 a 42, benché preesistente rispetto al dettato costituzionale, deve leggersi attraverso lo speculum della Carta fondamentale e, in essa, trova la sua giustificazione e il suo fondamento interpretativo.

            È evidente che, con il passare dei decenni, lo schema codicistico abbia avuto bisogno di numerosi interventi “manutentivi” sia ad opera del legislatore, sia attraverso le sentenze della Corte Costituzionale che, come anticipato, hanno consentito spesso di attualizzare la normativa preesistente al nascente Stato democratico, attraverso un’opera di lettura costituzionalmente orientata di alcuni principi e di alcune regole.

            Da ultimo, come si vedrà, l’intero settore ha trovato una sua parzialmente organica sistemazione attraverso l’entrata in vigore della così detta legge sul Terzo settore.

I

            L’espresso riconoscimento del diritto dei cittadini di associarsi, liberamente e senza autorizzazione, sancito dall’articolo 18 della Costituzione, unitamente al più generale principio espresso dalla stessa all’articolo 2, hanno influenzato, tanto nella loro interpretazione, quanto nella loro applicazione, le norme contenute nel Libro Primo Capo III del Codice civile (artt. 36 – 42) relative alle associazioni non riconosciute, alle fondazioni e ai comitati.

            A ciò si aggiunga l’impatto costituito dalle prescrizioni contenute nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea che espressamente prevede (art. 12, comma I) che “Ogni individuo ha diritto alla libertà di riunione pacifica ed alla libertà di associazione a tutti i livelli, segnatamente in campo politico, sindacale e civico …”.

            Siffatte disposizioni hanno legittimato ed incentivato il fenomeno dell’associazionismo, e ciò a prescindere dal formale riconoscimento della personalità giuridica degli enti coinvolti.

            Tuttavia, seppure l’introduzione della disciplina della associazioni non riconosciute è stata considerata, a ragione, come una delle principali innovazioni apportate dal Codice del 1942, è indubbio che le scarne prescrizioni della disciplina codicistica necessitassero di fonti integrative e di un profondo lavoro interpretativo, che permettesse ai soggetti privi di personalità giuridica di operare.

            I così detti “enti non personificati” rappresentano oggi uno schema essenziale della vita democratica del nostro Paese, basi pensare che all’interno di essi ricadono soggetti fondamentali come i partiti politici e i sindacati[2].

            D’altra parte, all’interno dello schema degli enti intermedi tra persona fisica e Stato, vanno ricondotti anche i così detti Enti non profit[3] che, sempre di più, rappresentano schemi operativi agili ed in grado di ottenere risultati importanti in ambito sociale, solidaristico ed economico-generale.  Tale risultato, però, si è raggiunto con non poche difficoltà atteso che, come è noto, il riconoscimento della personalità giuridica, e il conseguente assoggettamento di tali Enti ad una forma di sostanziale controllo-giustificazione degli Enti intermedi, ha rappresentato un vero e proprio dogma[4].

            Il punto è di fondamentale importanza perché, sebbene oggi appaia abbastanza anomalo, nell’impostazione codicistica ante Costituzione venivano considerati soggetti di diritto, oltre alle persone fisiche, esclusivamente quelle realtà dotate di personalità giuridica (attribuita ex lege, ovvero attraverso il procedimento di riconoscimento previsto dallo stesso Codice civile che, con l’intervento della Autorità prefettizia, rendeva chiara l’idea del controllo allo Stato centrale).

            Tale situazione ibrida ha fatto sì che, con il passare del tempo, si sia arrivati ad individuare nel concetto di “centro unitario di personalità giuridica” la natura e la ragion d’essere di tali Enti e, al contempo, se ne è riconosciuta la piena conformità al dettato costituzionale[5].

            Epperò, sebbene possa, lo si ripete, oggi apparire strano, è solo nel 1976 che la Corte di Cassazione ha stabilito che “gli enti non riconosciuti sono dotati di soggettività giuridica[6].

            Le associazioni non riconosciute, quindi, sono a tutti gli effetti soggetti pienamente legittimati ad agire nel mondo economico e sociale in via “autonoma” nel senso che, tramite i propri organi, godranno di alcune caratteristiche proprie dei soggetti con pienezza di diritti tra i quali quello di stare in giudizio e di contrarre obbligazioni[7].

            È ovvio che, a differenza rispetto alle associazioni dotate di riconoscimento, le principali differenze con queste ultime andranno ricercate sul piano della responsabilità patrimoniale che sarà perfetta nel caso delle associazioni riconosciute  – vale a dire che delle obbligazioni risponderà il patrimonio di quest’ultima – e imperfetta in quelle non riconosciute nelle quali i creditori, oltre che sul fondo comune, potranno agire anche nei confronti di chi abbia agito in nome e per conto dell’associazione[8].

II

            Accanto alle associazioni sempre il primo libro del Codice civile regolamenta anche la disciplina delle fondazioni e dei comitati.

            Tradizionalmente le fondazioni vengono definite come “patrimonio dedicato ad uno scopo[9]”; tale definizione rende bene l’idea della finalità teleologicamente orientata della fondazione che, sostanzialmente, agisce all’esclusivo fine di un ben determinato risultato e, a fronte di tale risultato, giustifica la sua esistenza nel mondo giuridico[10].

            Rispetto alle associazioni, le fondazioni si caratterizzano per un maggiore potere di controllo affidato alla Pubblica autorità che, come reso palese dagli artt. 25 e ss. c.c., può spingersi sino al punto di indirizzare la vita della fondazione nel caso di raggiungimento dello scopo, o di impossibilità dello stesso, nonché di operare incisive forme di controllo sugli organi deliberativi della fondazione[11].

            La ragione di questa possibilità di intervento, ritenuta comunque in linea con il dettato costituzionale, risiede nella prevalenza dell’elemento patrimoniale e teleologico rispetto a quello associativo che, invece, caratterizza le associazioni[12].

            Per quanto attiene, infine, i comitati, essi di regola vengono costituiti da più persone per reperire fondi o altre utilità finalizzati ad scopo particolare: possono essere costituiti per sostenere iniziative altrui, ma anche perproporne di autonome.

            La legge individua in maniera specifica i comitati di soccorso o di beneficenza e i comitati promotori di opere pubbliche, monumenti, esposizioni, mostre, festeggiamenti e simili, ponendo in risalto il profilo della sottoscrizione e della raccolta di fondi per uno scopo; rientra comunque nella libertà dei privati di crearne di ulteriori e diversi.

            Nei confronti del comitato che non ha richiesto o ottenuto il riconoscimento, e dei loro componenti, come per le associazioni non riconosciute,non opereranno i benefici di autonomia patrimoniale propri degli enti riconosciuti. 

            Comunque gli organizzatori e i gestori dei fondi raccolti sono responsabili della conservazione dei fondi e della loro destinazione allo scopo annunciato. Inoltre,i componenti del comitato rispondono in prima persona delle obbligazioni assunte, mentre i sottoscrittori sono tenuti soltanto ad effettuare le offerte promesse. 

            Sempre in maniera analoga alle associazioni non riconosciute, per il comitato non sussistono specifici obblighi di forma, oltre a quelli previsti per l’apporto di particolari categorie di beni (ad esempio, beni immobili). In ogni caso è possibile costituire un comitato sia con scrittura privata autenticata che con atto pubblico. Tali forme risultano oltretutto obbligatorie, in luogo di quella della scrittura privata registrata, unitamente ad altri presupposti e requisiti, ove il comitato voglia godere dei particolari benefici connessi alla qualifica di Onlus o comunque rientrare negli enti che possono beneficiare in generale delle agevolazioni fiscali previste per il c.d. terzo settore (per il quale si rimanda al prosieguo).

            Dal punto di vista della disciplina, il comitato è retto dagli accordi dei promotori, che potranno pertanto regolarne il funzionamento come meglio riterranno opportuno, nei limiti della legge. Se i fondi raccolti dal comitato sono insufficienti allo scopo, ovvero questo non è più attuabile, ovvero essi residuino una volta raggiunto lo scopo prefissato, la sorte di tali fondi, se non è disciplinata nell’atto costitutivo, è stabilita dall’autorità governativa.

III

            Accanto agli schemi, per così dire classici, rappresentati dalle associazioni, dalle fondazioni e dai comitati, si sono ormai da molto tempo diffusi ulteriori organismi intermedi[13] che, pur avendo natura di volta in volta riconducibile ad alcuni di tali schemi, si caratterizzano per particolari caratteristiche che risultano assorbenti al punto da essere indicative della tipologia di organismo in questione. Anzitutto vengono in considerazione le così dette Onlus.

            Il termine Onlus è acronimo di “Organizzazione non lucrativa di utilità sociale”.

            Nel tentativo di rafforzare e sostenere l’iniziativa privata in quello che viene comunemente definito “terzo settore”, ossia negli ambiti legati al volontariato, all’assistenza sociale, e così via, il legislatore ha disposto delle particolari agevolazioni, soprattutto di carattere fiscale, nei confronti di quegli enti che possiedano determinati presupposti o requisiti.

Come già anticipato, a stretto rigore le Onlus non costituiscono una tipologia di enti a sé stanti: è però previsto che determinate categorie di soggetti, quali le associazioni, riconosciute o non, i comitati, le fondazioni, le società cooperative e gli altri enti di carattere privato, con o senza personalità giuridica possano divenire Onlus, ove ricorrano specifici presupposti e siano rispettate determinate condizioni.       L’ente che deve utilizzare l’acronimo Onlus nella propria denominazione, deve essere retto da un atto costitutivo o da uno statuto redatti per atto pubblico, ovvero per scrittura privata autenticata o registrata.

            Inoltre, il medesimo atto dovrà tassativamente contenere delle clausole disposte dalla legge, quali la previsione della democraticità della struttura, il divieto di distribuzione di utili e l’obbligo di impiegarli per gli scopi di utilità sociale, e così via. Queste ultime clausole sono altresì obbligatorie per tutti quegli enti, associazioni riconosciute, non riconosciute e comitati, che vogliano usufruire dei benefici fiscali, soprattutto in tema di imposte dirette, o accedere ai fondi pubblici destinati al c.d. terzo settore o non profit.

L’ente, come scopo, deve perseguire esclusivamente finalità di utilità sociale e la propria attività deve spaziare in uno o più dei campi previsti dalla legge: assistenza sociale, socio-sanitaria e sanitaria, beneficenza, istruzione, formazione, sport dilettantistico, tutela, promozione e valorizzazione delle cose di interesse artistico, della natura e dell’ambiente; promozione della cultura e dell’arte; tutela dei diritti civili; ricerca scientifica di particolare interesse sociale .

            Oltre al divieto di svolgere attività diverse da quelle sopra menzionate, particolari limiti sono posti alle attività accessorie e connesse, onde restringere la rilevanza delle attività economiche, che devono in tali organizzazioni permanere come assolutamente strumentali e marginali.

            Infine la legge prevede che alcune delle attività sopra menzionate debbano essere svolte solo a favore di soggetti svantaggiati o bisognosi. Un apposito albo, poi, raccoglie tali enti che solo in presenza di tutti i requisiti fin qui evidenziati possono accedervi.

IV

            Nei paragrafi precedenti più volte si è fatto riferimento al così detto “Terzo settore” con ciò intendendosi, in via di prima e generica approssimazione, l’insieme degli enti del primo libro del Codice civile (associazioni, fondazioni, onlus) caratterizzati da particolari e specifiche finalità solidaristiche, assistenziali, culturali, mediche, ricreative, sociali, sportive etc.

            Considerata, quindi, l’importanza sociale dei settori di riferimento[14], il dibattito dottrinario e politico si è concentrato, quanto meno nell’ultimo decennio, sulla necessità di dare organicità ad un ambito quantomai eterogeneo e poliforme dove, al di là delle singole forme giuridiche assunte dai vari enti in questione, sussiste una caratterizzazione comune delle finalità che tali enti devono andare a perseguire[15].

            La tecnica legislativa utilizzata, come spesso avviene in questi casi, è stata quella del Testo Unico che, sebbene non raggiunga – o difficilmente raggiunga – l’organicità e la coerenza di un vero e proprio Codice, almeno nell’accezione che di tale termine danno i civilisti, riesce quantomeno a fornire schemi omogenei di fronte a fenomeni, come già detto, complessi ed articolati[16].

            Al fine della piena applicazione delle nuove norme, però, sarà necessario attendere l’emanazione delle fonti regolamentari di secondo grado alle quali, come esplicitamente dichiarato in sede di approvazione, saranno demandati i compiti attuativi della riforma così come prevista nel detto Testo Unico.

            Andando nello specifico, il c.d. “Terzo  settore” è definito come il  complesso  degli  enti  privati costituiti  con finalità  civiche,  solidaristiche  e  di  utilità  sociale  che,  senza  scopo  di  lucro,  promuovono e realizzano  attività di interesse generale, mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi, in coerenza con le finalità stabilite nei rispettivi statuti o atti costitutivi.

            Tra le finalità perseguite dalla legge delega, all’articolo 4, vi è la revisione della disciplina contenuta nel codice civile in tema di associazioni e fondazioni, i cui principi sono: la semplificazione e revisione del procedimento per il riconoscimento della personalità giuridica; l’individuazione delle disposizioni generali e comuni applicabili a tutti gli enti del Terzo settore; l’individuazione delle attività di interesse generale che caratterizzano tali enti; la previsione del divieto di distribuzione,  anche  in  forma  indiretta, degli utili o degli avanzi  di  gestione  e  del patrimonio, salva la specifica previsione per l’impresa sociale; la garanzia,  negli  appalti  pubblici,  di condizioni  economiche  non  inferiori  a  quelle  previste  dai  contratti collettivi nazionali di lavoro adottati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative; la definizione delle informazioni obbligatorie da inserire negli statuti e negli atti costitutivi; la distinzione,  nella  tenuta  della  contabilità  e  dei  rendiconti,  della  diversa  natura  delle  poste  contabili  in relazione al perseguimento dell’oggetto sociale e la definizione dei criteri e vincoli in base ai quali l’attività d’impresa svolta dall’ente in forma non prevalente e non stabile risulta finalizzata alla realizzazione degli scopi istituzionali; la previsione di obblighi di trasparenza e informazione anche con forme di pubblicità dei bilanci e degli altri atti fondamentali dell’ente; la disciplina del regime di responsabilità limitata delle persone giuridiche; la garanzia del rispetto dei diritti degli associati; l’applicazione alle associazioni e fondazioni che esercitano stabilmente attività di impresa, delle norme del Codice civile in materia di società e di cooperative e mutue assicuratrici (di cui ai titoli V e VI del libro V) in quanto compatibili; la disciplina  del  procedimento  per  ottenere  la  trasformazione  diretta  e  la  fusione  tra  associazioni  e fondazioni; la riorganizzazione  del  sistema  di  registrazione  degli  enti  (e  degli  atti  gestionali  rilevanti),  attraverso  la messa  a  punto  di  un  Registro  unico  nazionale  del  Terzo  settore  (da  istituirsi  presso  il  Ministero  del lavoro  e  delle  politiche  sociali).

            Tali indicazioni contenute nella legge delega sono state recepite nel Testo Unico con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (legge 6 giugno 2016, n. 106).

            Si tratta del decreto legislativo più corposo (104 articoli) tra i cinque emanati dopo la legge delega per la riforma del Terzo settore (106/2016).

            Esso avrà bisogno a sua volta, di ben20 Decreti ministeriali attuativi perché tutto quanto previsto possa effettivamente produrre gli effetti sperati.

            Chi si è occupato, anche in sede di Legge delega, della materia ha più volte usato la parola “riordino”, proprio per indicare lo scopo principale del Codice del Terzo settore.

            Tre esempi sono sufficienti a farne comprendere la portata.

Anzitutto vengono abrogate diverse normative, tra cui due leggi storiche come quella sul volontariato (266/91) e quella sulle associazioni di promozione sociale (383/2000), oltre che buona parte della “legge sulle Onlus” (460/97).

In secondo luogo vengono raggruppati in un solo testo tutte le tipologie di quelli che da ora in poi si dovranno chiamare Enti del Terzo settore (Ets) le cui sette nuove tipologie sono: organizzazioni di volontariato (che dovranno aggiungere Odv alla loro denominazione); associazioni di promozione sociale (Aps); imprese sociali (incluse le attuali cooperative sociali), per le quali si rimanda a un decreto legislativo a parte; enti filantropici; reti associative; società di mutuo soccorso; altri enti (associazioni riconosciute e non, fondazioni, enti di carattere privato senza scopo di lucro diversi dalle società).

            Restano dunque fuori dal nuovo universo degli Ets, tra gli altri: le amministrazioni pubbliche, le fondazioni di origine bancaria, i partiti, i sindacati, le associazioni professionali, di categoria e di datori di lavoro. Mentre per gli enti religiosi il Codice si applicherà limitatamente alle attività di interesse generale di cui all’esempio successivo.

            Gli Enti del Terzo settore saranno obbligati, per definirsi tali, all’iscrizione al Registro unico nazionale del Terzo settore (denominato Runts), che farà quindi pulizia dei vari elenchi oggi esistenti. Il Registro avrà sede presso il Ministero delle Politiche sociali, ma sarà gestito e aggiornato a livello regionale. Viene infine costituito, presso lo stesso Ministero, il Consiglio nazionale del Terzo settore, nuovo organismo composto da circa trenta componenti, che sarà tra l’altro l’organo consultivo per l’armonizzazione legislativa dell’intera materia.

            Infine vengono definite in un unico elenco riportato all’articolo 5 le “attività di interesse generale per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale” che “in via esclusiva o principale” sono esercitati dagli Enti del Terzo settore. Si tratta di un elenco, dichiaratamente aggiornabile, che “riordina” appunto le attività consuete del non profit (dalla sanità all’assistenza, dall’istruzione all’ambiente) e ne aggiunge alcune emerse negli ultimi anni (housing, agricoltura sociale, legalità, commercio equo ecc.).

            Gli Ets, con l’iscrizione al registro, saranno tenuti al rispetto di vari obblighi riguardanti la democrazia interna, la trasparenza nei bilanci, i rapporti di lavoro e i relativi stipendi, l’assicurazione dei volontari, la destinazione degli eventuali utili.

            Ma potranno accedere anche a una serie diesenzioni e vantaggi economici previsti dalla riforma: circa 200 milioni nei prossimi tre anni sotto forma, ad esempio, di incentivi fiscali maggiorati (per le associazioni, per i donatori e per gli investitori nelle imprese sociali), di risorse del nuovo Fondo progetti innovativi, di lancio dei “Social bonus” e dei “Titoli di solidarietà”.

            Senza contare che diventano per la prima volta esplicite in una legge alcune indicazioni alle pubbliche amministrazioni: come cedere senza oneri alle associazioni beni mobili o immobili per manifestazioni, o in comodato gratuito come sedi o a canone agevolato per la riqualificazione; o incentivare la cultura del volontariato (soprattutto nelle scuole): o infine coinvolgere gli Ets sia nella programmazione che nella gestione di servizi sociali, nel caso di Odv e Aps, “se più favorevoli rispetto al ricorso al mercato”.

            Una parte consistente del Codice (sei articoli, dal 61 al 66) è dedicata aiCentri di servizio per il volontariato (CSV), interessati da una profonda revisione in chiave evolutiva che ne riconosce le funzioni svolte nei primi 20 anni della loro esistenza e le adegua al nuovo scenario. A cominciare dall’allargamento della platea a cui i CSV dovranno prestare servizi, che coinciderà con tutti i “volontari negli Enti del Terzo settore”, e non più solo con quelli delle organizzazioni di volontariato definite dalla legge 266/91 (anche se in realtà era già cospicua la quota di realtà del terzo settore “servite” in questi anni).

I Centri – che dovranno essere di nuovo accreditati – verranno governati da un inedito Organismo nazionale di controllo (Onc) e dalle sue articolazioni territoriali (Otc), le cui maggioranze saranno detenute dalle fondazioni di origine bancaria. Sarà inoltre ridotto il numero complessivo dei Centri in riferimento ad alcuni parametri territoriali.

            Nella governance dei CSV potranno entrare tutti gli Ets, lasciando però al volontariato la maggioranza nelle assemblee. Saranno previsti nuovi criteri di incompatibilità tra la carica di presidente di un CSV e altre cariche, ad esempio ministro, parlamentare, assessore o consigliere regionale o di comuni oltre i 15 mila abitanti. I CSV, insieme alle Reti associative nazionali, potranno essere autorizzati dal ministero delle Politiche sociali all’“autocontrollo degli Enti del Terzo settore”. Viene infine centralizzato e ripartito a livello nazionale il fondo per il funzionamento dei CSV, che continuerà ad essere alimentato da una parte degli utili delle fondazioni di origine bancaria e da un credito di imposta fino a 10 milioni, a regime, che queste ultime si vedranno riconoscere ogni anno[17].

Walter Virga


[1] Diritto Costituzionale, R. Bin – G. Pitruzzella, Torino

[2] Commentario al Codice Civile Scialoja – Branca. Associazioni non riconosciute e comitati Artt. 36 – 42. Franco Galgano – Bologna

[3] L’associazione non riconosciuta. Modelli normativi ed esperienze atipiche. Andrea Fusaro – Padova

[4] Commentario al Codice Civile Schlesinger – Busnelli. Le associazioni non riconosciute Artt. 36 – 42. A cura di Giulio Ponzanelli – Milano.

[5] Commentario al Codice Civile Scialoja – Branca. Associazioni non riconosciute e comitati Artt. 36 – 42. Franco Galgano – ZANICHELLI; Persone giuridiche e associazioni non riconosciute. Giuseppe Tamburrino – Torino

[6] Cassazione Civile – Sentenza n. 4252 del 16.11.1976 con la quale, tra l’altro, è stato ammesso il fatto che la Costituzione non menzioni il riconoscimento pubblico quale elemento essenziale al fine della libertà di associazione.

[7] Fusaro, A., L’associazione non riconosciuta, modelli normativi ed esperienze atipiche, Padova

[8] Le persone giuridiche e le organizzazioni senza personalità giuridica. Francesca Loffredo – Milano

[9] Manuale di diritto privato, A. Torrente – P. Schlesinger, Milano

[10] Guarino A., Patrimoni destinati e ordinamento italiano, Cosenza.

[11] Diritto Civile, I, C.M. Bianca, Milano

[12] Diritto Civile e Commerciale, I, F. Galgano, Cedam; Le fondazioni non riconosciute, F. Greco, Milano

[13] Si pensi, in particolare, alle imprese sociali, alle cooperative sociali, alle Onlus, alle organizzazioni di volontariato; sul lavoro negli enti non profit, v. i lavori monografici di F. BANO,Il lavoro senza mercato. Le prestazioni di lavoro nelle organizzazioni “non profit”, Bologna e M. LAMBERTI, Il lavoro nel terzo settore. Occupazione, mercato e solidarietà, Giappichelli, 2005.

[14] Sulla relazione tra terzo settore e occupazione, v. già L. BONATTI, C. BORZAGA, M.L. SEGNANA, La potenzialità occupazionale  del  terzo  settore  tra  mito  e  realtà.  Analisi  critica  del  dibattito  e  delle  politiche, in  G. LUNGHINI, F. SILVA, R. TARGETTI LENTI (a  cura  di), Politiche  pubbliche  per  il  lavoro,  Bologna; C. BORZAGA, Terzo settore e occupazione: un’analisi critica del dibattito, ISSAN, WorkingPaper n. 2/1995.

[15] Dal punto di vista del valore economico, la ricerca Unicredit del 2012 quantifica un volume di entrate stimato di 67 miliardi di euro, pari al 4,3% del Pil; un valore in deciso aumento rispetto ai dati Istat del 2001, che attestavano tale cifra a 38 miliardi di euro, pari al 3,3% del Pil: Unicredit Foundation, Ricerca sul valore economico del Terzo Settore in Italia, 2012

[16] Il c.d. Codice del Terzo settore: un’occasione mancata?, Le Nuove Leggi Civili Commentate, 2018

[17] Il sistema delle fonti del diritto nel terzo settore, L. Gori, Osservatorio sulle fonti, 1/2018