È scoppiata la guerra nel giardino saudita e non si può più nascondere. Una guerra nel cuore del mondo arabo “bene”. La guerra nella terra che dette i natali allo “sceicco virtuale” Osama Bin Laden.

La guerra che dilania da mesi lo Yemen si è ormai estesa alla Arabia Saudita, e assume sempre più i connotati di una resa dei conti tra Riad e Teheran per l’egemonia, nel quadro della storica tra sunniti e sciiti. Non si tratta di un’azione “mordi e fuggi” tipica della guerrilla e nemmeno un’operazione terroristica articolata affidata a qualche “shahid”, ma di una vera e propria operazione di guerra guerreggiata e da tempo pianificata. I ribelli sciiti Houthi si sono infiltrati ora in Arabia Saudita. L’azione ha crismi da esercito, non da milizia jihadista. Sostenuti dall’ artiglieria, i ribelli sciiti yemeniti hanno attraversato il confine saudita addentrandosi fino a Najran. La sfida alla dinastia Saud è stata lanciata.

Gli sciiti stanno attuando il piano fallito da Osama bin Laden che ambiva più d’ogni altra cosa al mondo a destabilizzare il regno saudita. Gli Houthi, ovvero l’Iran. L’Iran, infatti, attraverso gli Houthi agisce nello Yemen, sfruttandone la comune appartenenza allo sciismo.

Obiettivo di Teheran? Favorire la creazione di un movimento modello Hezbollah, assicurandosi un formidabile strumento nella guerra “indiretta” che lo vede impegnato in vari paesi della regione (Siria, Libano, Bahrain, Iraq su tutti).

Ma anche l’Arabia Saudita interferisce nelle vicende dello Yemen perché lo considera una minaccia potenziale alla sicurezza del regno. Il peso demografico di Sana’a e la sua progressiva incapacità di controllare il territorio hanno spinto Riad a sviluppare una fitta rete di legami clientelari nel Paese confinante. Il fattore tribale rappresenta un valido alleato. Capi clan, militari, uomini politici vengono regolarmente “prebendati” dai sauditi. La situazione si fa sempre più esplosiva e rischia di scoppiare con effetti destabilizzanti per i Paesi confinanti. Geopoliticamente parlando lo Yemen ha un’importanza capitale a vari livelli. Proteso sul Golfo di Aden e sullo stretto del Bab el-Mandeb, è il naturale crocevia fra mondo arabo e mondo africano.

Un’altra chiave ce la fornisce lo stretto di Bab-el-Mandeb. Da qui passano le rotte che collegano il mar Mediterraneo all’Oceano Indiano, attraverso il canale di Suez e il mar Rosso. Secondo il recente rapporto dell’Eia (l’Agenzia statunitense per le informazioni sull’energia) “World oil transit chockepoints”, Bab-el-Mandeb è il quarto “collo di bottiglia” (così chiamato per il loro spazio limitato che pone restrizioni alla grandezza delle imbarcazioni che devono attraversarli) al mondo per volume di greggio e prodotti petroliferi trasportati. Nel 2013, l’Eia ha stimato che dallo stretto sono passati ogni giorno 3,8 milioni di barili (2,9 del 2009).

Perciò pirateria, attacchi terroristici e in definitiva controllo dell’area in bilico hanno un peso esiziale anche sul prezzo del petrolio.

Non si tratta pertanto di una mera guerra inter-musulmana, ma è qualcosa di ben più complesso. Perché la centralità del Golfo risiede nel suo tesoro energetico e finanziario, oltre che nel patrimonio religioso.

La idiosincrasia reciproca sciiti – sunniti spiega perciò solo in parte lo scontro nel Golfo.

La guerra che rischia di estendersi dallo Yemen alla Arabia Saudita va anche vista come una sfida al “re riformatore”. Il tentativo di un imprimere una svolta per non venire fagocitati. Dare spazio a una classe dirigente più giovane per non soccombere all’Iran. Ecco allora il settantanovenne Salman Bin Abdulaziz Al Saud, dar vita a una rivoluzione di palazzo, che porta l’ex ambasciatore a Washington.

A nord, le Guardie della rivoluzione iraniane sciite forniscono assistenza al governo iracheno dominato dagli sciiti nella loro lotta contro i musulmani sunniti dell’Isis. A nord ovest, le Guardie della rivoluzione iraniana forniscono assistenza al governo alawita (ovvero sciita) del presidente Bashar al-Assad contro l’Isis, al-Nusra e contro ciò che resta del cosiddetto “Esercito libero siriano”. Gli Hezbollah sciiti provenienti dal Libano stanno combattendo accanto l’esercito di Assad, così come i musulmani sciiti afgani, che portano uniformi siriane. L’Arabia saudita afferma che gli iraniani sono in Yemen con gli Houthi.

Nella “polveriera saudita-yemenita” operano alleanze storiche e ne sorgono di nuove alla bisogna. Con l’ Arabia Saudita si sono subito schierati Egitto, Giordania, Sudan, Pakistan, Bahrain, Kuwait, Qatar e Marocco che garantiranno il sostegno militare a Riad con invio di truppe di terra e di aria. La monarchia saudita potrà contare anche sull’appoggio logistico e d’intelligence da parte degli Stati Uniti.

La chiave di lettura saudita del conflitto è che tutto quanto attiene agli Houthi, agli sciiti in generale e alle forze che si oppongono al presidente Hadi è un conglomerato “terroristico”, il cui unico scopo è quello di destabilizzare lo Yemen e la Penisola Araba. Ma come detto è una ricostruzione che malgrado presenti dei frammenti di verità si discosta assai dalla realtà.

Alla partita non è estranea Israele. Difatti, il programma nucleare iraniano ha portato l’Arabia Saudita e Israele ad avvicinarsi. Una fonte europea di alto livello ha confermato che Riad si è offerta di lasciare che i caccia israeliani usino il suo spazio aereo per attaccare l’Iran, se se necessario. In cambio Israele dovrebbe riprendere, con sostanziali progressi, i colloqui di pace con i palestinesi. Nemico comune, operazioni comuni. Inoltre, Riad ha già portato nella sua orbita l’Egitto.

Del resto, il generale al-Sisi è riuscito a imporsi sui Fratelli Musulmani e il presidente islamista Mohammed Morsi, proprio grazie al sostegno materiale da parte della petromonarchia saudita, disposta a calare sul tavolo decine di miliardi di aiuti militari nel momento in cui gli Stati Uniti avevano minacciato di sospendere le forniture militari (valore 5miliardi di dollari) al regime del Cairo se al-Sisi non avesse moderato la repressione di piazza contro la Fratellanza. Ma la minaccia iraniana è così grande che queste sinergie potrebbero non bastare per fronteggiare l’espansionismo iraniano. Il malessere di Israele a seguito dell’accordo sul nucleare iraniano non era affatto campato in aria.