di Edoardo Tedeschi1

Il fenomeno criptovalute ha destato preoccupazioni e dubbi irrisolti non solo dal punto di vista della loro sostanziale regolamentazione, ma anche sul fronte del loro probabile sequestro: il dibattito, in particolare, si è incentrato sulle modalità con cui operare correttamente il sequestro, il trasferimento sicuro dei valori e la cristallizzazione di quanto rinvenuto, l’utilizzo e la conservazione delle chiavi private dei portafogli giudiziari creati appositamente e, dunque, i soggetti coinvolti nelle diverse procedure di accesso, sottrazione e trasferimento dei criptovalori.

Presupposto della disamina è la distinzione tra le diverse nozioni di sequestro conservativo ai sensi dell’art. 316 c.p.p., di sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p. e di sequestro probatorio disciplinato dall’art. 253 c.p.p..

Il sequestro del prezzo, profitto o prodotto del reato, in qualità di mezzo di ricerca della prova (art. 253 c.p.p.) porterà l’attenzione dell’operatore ai wallet e alle tracce lasciate su computer e smartphone in quanto, in ottica probatoria, si vuole cristallizzare l’esistenza di portafogli digitali ed evidenze a corredo utili per dimostrare la provenienza illecita di denaro o utili. Quando la cosa non è più necessaria ai fini di prova deve essere restituita all’avente diritto, salvo che il giudice non e disponga il sequestro preventivo o conservativo ovvero che non ne ordini la confisca2. In tale ipotesi, sembrerebbe superfluo porsi il problema della conversione in denaro contante delle valute virtuali in quanto sono state sequestrate proprio per appurarne la tipologia e la quantità.

La finalità del sequestro preventivo, invece, è evitare che la disponibilità di una “cosa” pertinente al reato possa aggravarne o protrarne le conseguenze: diversamente dal sequestro probatorio, in questo caso sarebbe fondamentale individuare la quantità esatta di valuta virtuale e renderla indisponibile al titolare.

Si pone il problema di come sottrarre la valuta virtuale dalla disponibilità del soggetto. L’ipotesi più acclamata ne prevede il trasferimento verso un diverso indirizzo le cui chiavi private rimangono ad esclusiva disposizione dell’autorità giudiziaria.

Come si può facilmente ipotizzare, il mero sequestro del wallet risulterebbe ininfluente dal momento in cui l’indagato potrebbe avere una copia della chiave privata e utilizzarla successivamente per svuotarne il contenuto, facendo sorgere anche profili di responsabilità nei confronti dei soggetti che hanno fattivamente operato il sequestro di valute virtuali.

Ai sensi dell’art. 183-quater, comma 3, disp. att. c.p.p. “l’autorità giudiziaria competente ad amministrare i beni sequestrati è il giudice che ha disposto il sequestro” e laddove il giudice ritenga che le criptovalute siano effettivamente caratterizzate da un’alta volatilità potrà procedere ai sensi dell’art. 260, comma 3, c.p.p. il quale dispone che “se si tratta di cose che possono alterarsi, l’autorità giudiziaria ne ordina, secondo i casi, l’alienazione o la distruzione”.

Viene in aiuto la statuizione della Suprema Corte che chiarisce al riguardo: “ai fini dell’alienazione di cose in sequestro che possono alterarsi rileva anche il progressivo intrinseco deprezzamento del bene in ragione del trascorrere del tempo”3. In concreto, la conversione in valuta fiat è resa necessaria dal rischio di significativa alterazione del valore delle valute virtuali sequestrate.

Da ultimo, si consideri il caso del sequestro conservativo ex art. 316 c.p.p., il cui fine è quello di rendere disponibili nel tempo i valori oggetto del provvedimento. Anche in questo caso, come per il sequestro preventivo, ciò che rileva è la valuta virtuale in sé considerata e non le tracce per la trattazione della bitcoin forensics, pertanto rilevano le stesse considerazioni sopra citate per il sequestro preventivo.

Il problema emerso, oggetto di interesse e di scontro tra dottrina e giurisprudenza, interessa dunque il valore della valuta virtuale nel tempo e la sua necessaria conversione in moneta avente corso legale, dunque la gestione dell’eventuale dissequestro e il valore che deve essere restituito agli interessati, senza escludere l’eventuale responsabilità degli operanti in caso di anomalie o scarsa diligenza adoperata nella fase di movimentazione delle valute virtuali dal wallet originario a quello giudiziario.

Da quanto detto è evidente che il sequestro della valuta virtuale non consegue al sequestro della chiave privata o del wallet, bensì si deve procedere al concreto trasferimento delle criptovalute in un portafoglio digitale creato appositamente per ordine dell’autorità giudiziaria, che potrà essere usato e movimentato esclusivamente dagli ufficiali di polizia giudiziaria e, conclusa l’operazione di sequestro, posto a disposizione dell’autorità.

Emergono due problemi, relativi sia alla materiale creazione di un wallet “impenetrabile” sia alla gestione dello stesso.

Per quanto concerne la creazione del portafoglio digitale, si ipotizzano distinti scenari secondo cui: sequestrate le valute virtuali, si potrebbe procedere alla conversione in moneta legale e al loro trasferimento presso un conto corrente bancario intestato alla Procura o al Tribunale, garantendo la stabilità del valore di quanto sequestrato. Questa soluzione farebbe emergere non pochi problemi in caso di potenziale dissequestro per l’elevata volatilità che caratterizza le valute virtuali.

Ovvero, sequestrate le valute virtuali, potrebbero essere movimentate presso un portafoglio digitale detenuto da un exchanger, garantendone la stabilità di valore ma lasciando la disponibilità delle somme in mano a un soggetto privato, non regolamentato.

Un’attività sicuramente non scevra di rischi: l’exchange è un soggetto privato cui si affiderebbe la responsabilità della gestione e conservazione del wallet

A questo problema si potrebbe ovviare trasferendo le valute virtuali a un wallet detenuto direttamente dall’autorità giudiziaria.

Tale soluzione potrebbe garantire stabilità al valore di quanto sequestrato e non espone il portafoglio digitale a non infrequenti ipotesi di truffe e raggiri ad opera di soggetti specializzati quali gli exchanger.


1 Dottorando di ricerca in Diritto e Impresa (XXXVI ciclo), presso la LUISS Guido Carli. Specializzato in Diritto d’impresa, Diritto bancario e Scienze economiche e bancarie europee.

2 Cass. Pen., Sez. III, 15 novembre 2005, n. 9640.

3 Cass. Pen., sez. II, 09 dicembre 2016, n. 1916.