di Raffaele Barberio
La fattispecie di cui all’art. 11 del D.Lgs. n. 74/2000, originariamente prevista nello schema del decreto, è stata la prima norma a contrasto della c.d. “evasione da riscossione”, ovvero di quelle condotte poste in essere dai contribuenti allo scopo precipuo di dissolvere i propri patrimoni, precludendo all’Erario il materiale introito di quanto dichiarato nonché impedendo il ristoro del danno patrimoniale patito quale conseguenza di evasioni fiscali definitivamente accertate.
La c.d. “Manovra correttiva” di cui al D.L. 31 maggio 2010, n. 78, nell’ambito degli interventi ritenuti necessari per la stabilizzazione delle spese ed il contrasto all’evasione fiscale, all’art. 29, ha introdotto specifiche disposizioni normative finalizzate a garantire un’effettiva tutela dei crediti erariali, proseguendo l’intenzione del legislatore di prevedere delle sanzioni più aspre a contrasto della citata evasione da riscossione, foriera di evidenti distorsioni del sistema tributario. Al riguardo, apportando sensibili modifiche all’istituto della transazione fiscale di cui all’art. 182 ter del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, il legislatore ha profondamente novellato la fattispecie in esame, al fine di garantire l’interesse pubblico alla corretta e regolare percezione dei tributi, intervenendo non solo a monte del rapporto d’imposta, con l’adozione di più efficaci strumenti di ricerca e repressione di quelle condotte evasive e/o elusive incidenti, quindi, sulla realizzazione del presupposto d’imposta, ma anche a valle del suddetto rapporto tributario.
Pertanto, alla precedente fattispecie punitiva viene aggiunta una forma aggravata di illecito caratterizzata dalla circostanza del superamento della soglia di duecentomila euro di imposte, sanzioni ed interessi alla sottrazione del cui pagamento è finalizzata la condotta dell’agente, per la quale è prevista una pena della reclusione da un anno a sei anni.
Inoltre, il legislatore ha esteso l’ambito oggettivo di applicazione della fattispecie di reato di cui trattasi, in quanto l’alveo di punibilità dell’introdotto comma secondo ricomprende la condotta di chi, nell’ambito della transazione fiscale di cui all’182 ter del R.D. n. 267/1942, al fine di ottenere per sé o per altri il riconoscimento di un minore debito tributario, indica nella prevista documentazione elementi passivi fittizi e/o occulta, in tutto o in parte, componenti attivi per un ammontare complessivo superiore a cinquantamila euro, soggiacendo alla pena della reclusione da sei mesi a quattro anni. Anche nell’ambito del comma secondo, è prevista un’aggravante specifica che si configura al superamento della soglia di duecentomila euro, sempre riferiti al complesso degli elementi passivi fittizi e/o degli elementi attivi sottratti, contemplando però una pena della reclusione da un anno a sei anni.
In altre parole, l’art. 11, nella formulazione risultante dalla novella apportata dalla manovra correttiva, prevede la punibilità, con la reclusione da sei mesi a quattro anni, per chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva, ovvero per chiunque, al fine di ottenere per sé o per altri un pagamento parziale dei tributi e relativi accessori, indica nella documentazione presentata ai fini della procedura di transazione fiscale elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi per un ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila.
Per entrambe le fattispecie criminose è prevista un’aggravante specifica qualora il credito erariale riguardi un ammontare superiore a duecentomila euro, in tali casi è prevista una pena raddoppiata nel minimo ed aumentata della metà nel massimo (da uno a sei anni).
In relazione ai soggetti attivi, dal contenuto della norma si evince che il reato deve considerarsi come “proprio” (o, rectius, “pseudo-proprio”, giacché il novero dei debitori d’imposta risulta davvero molto ampio), nonostante la norma, nell’individuare i potenziali soggetti attivi, rechi la menzione letterale di “chiunque” tenga la condotta incriminata. Ciò equivale a dire che i potenziali soggetti attivi del reato possono essere esclusivamente coloro i quali siano già qualificati come debitori d’imposta.
In quest’ottica, il dolo specifico richiesto deve essere rapportato allo scopo di non eseguire una prestazione d’imposta che sia stata già quantificata e determinata nei suoi elementi essenziali. Anzi, invertendo i termini del ragionamento, proprio la necessità di riscontrare il dolo specifico in rapporto al superamento di una certa soglia di “evasione da riscossione”, fornisce ulteriore conforto alle conclusioni sopra raggiunte, inducendo la dottrina ad affermare che “poiché l’oggetto del dolo è costituito dal debito tributario superiore ai cinquantamila euro, è di tutta evidenza che la condotta fraudolenta non sarà punibile ove la stessa si realizzi prima che sia maturato l’obbligo tributario”.
Alla luce delle argomentazioni sopra esposte, dal punto di vista ontologico e classificatorio, stanti altresì le caratteristiche di tendenziale lesività richieste in rapporto ai comportamenti incriminati, pare indubbiamente corretto ricostruire ed intendere la fattispecie come configurante un reato di pericolo concreto, riferito a condotte realmente e concretamente idonee a pregiudicare la procedura di riscossione, la cui attitudine in tale senso va verificata caso per caso, in base ad un giudizio di potenzialità lesiva da formulare ex ante, in conformità ai generali principi penalistici, non venendo più richiesto l’effettivo pregiudizio della procedura di riscossione del credito erariale.
Il bene o interesse giuridico che la norma tutela si individua, pertanto, nel corretto funzionamento della procedura di riscossione coattiva, il cui satisfattivo dipanarsi potrebbe essere compromesso da condotte fraudolente della specie. La finalità, quindi, è quella di perseguire le condotte di volontario depauperamento del patrimonio del contribuente a nocumento delle pretese erariali e della relativa procedura di riscossione coattiva, continuando ad avere rilevanza penale tutte le azioni che, scientemente, sono indirizzate alla diminuzione della garanzia patrimoniale per sottrarsi al pagamento delle imposte.
Il fatto tipico, sotto il profilo oggettivo, consiste nella “alienazione simulata” dei propri beni oppure nel compimento, più generico, di “altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni”, in modo tale da rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva del credito tributario.
Orbene, quanto alla prima condotta, in essa si parla di “alienazioni” e di “simulazioni” che devono avere per oggetto “beni propri”.
Il termine tecnico “alienazioni” richiama, intuitivamente, una nozione civilistica che è sostanzialmente generica, o meglio “elastica”, anche se, nella pratica, essa è usata come sinonimo del più preciso e ristretto istituto della “vendita”.
La simulazione, come noto, consiste in un negozio giuridico apparente con il quale si vuole creare uno schermo, ossia una finzione, una realtà virtuale che confonda i terzi, palesando ai loro occhi una situazione giuridica che nella realtà o non esiste affatto (simulazione assoluta) o è relativamente diversa da come essa appare (simulazione relativa).
L’ulteriore condotta sancita dal primo comma consiste nella commissione di altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva.
Orbene, l’ipotesi sopra formulata, della vendita “effettiva” di propri beni, animata dall’intento psicologico di sottrarsi alla riscossione coattiva, che è a sua volta mezzo di attuazione di un dovere di solidarietà sociale imposto da norme di rilievo costituzionale, sembra rientrare sicuramente in questa seconda ipotesi delittuosa, di portata certamente residuale e molto più elastica, dato che punisce il compimento di qualsiasi atto compiuto sui propri beni, purché accompagnato da un disegno psicologico di frode verso il Fisco.
La vendita effettiva, in presenza di un debito erariale certo, liquido ed esigibile, dunque, integra il reato in esame, proprio perché essa, sul piano civilistico, determina l’effettivo passaggio di proprietà in capo all’acquirente e, quindi, si dimostra effettivamente “idonea” a sottrarre legittimamente il bene alla azione esecutiva erariale.
La nuova ipotesi criminosa di cui al comma secondo, introdotta dalla manovra correttiva del 2010, sancisce una ulteriore modalità di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, attribuendo rilevanza penale alle false indicazioni riportate nella documentazione necessaria per accedere all’istituto della transazione fiscale di cui all’art. 182 ter della legge fallimentare. La finalità della fallace esposizione è quella di ottenere un pagamento parziale delle somme erariali dovute, qualora la stessa sia complessivamente superiore alla soglia di rilevanza prevista.
La nuova fattispecie illecita si inserisce altresì nel processo di riforma degli istituti della legge fallimentare, operata dal D.Lgs. n. 169/2007, dal D.L. n. 185/2008, e, da ultimo, dal D.L. n. 78/2010. In ragione di quanto disposto dagli artt. 160, 161, 182 bis e 182 ter della legge fallimentare, l’imprenditore in stato di crisi può proporre ai creditori un concordato preventivo sulla base di un piano attestante la ristrutturazione del debito e la soddisfazione dei crediti in determinate forme, o può domandare l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti stipulato con i creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti. In entrambi i casi sopra citati, il contribuente può accedere all’istituto della transazione fiscale, con la possibilità di proporre il pagamento, parziale o anche razionato, dei tributi amministrati dalle Agenzie fiscali e dei relativi accessori, nonché dei contributi amministrati dagli Enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie e dei relativi accessori, ad eccezione dei tributi costituenti risorse proprie dell’Unione Europea[1].
La condicio sine qua non per l’accesso all’istituto della transazione fiscale è data dalla presentazione dell’apposito piano di ristrutturazione e della relativa documentazione inerente la situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa, lo stato economico ed estimativo delle attività, l’elenco dei creditori e di coloro che vantano diritti reali e personali sui beni del debitore ed il valore dei beni, accompagnato da una relazione di un professionista che è tenuto ad attestare la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano aziendale.
Altra novità di rilievo apportata dal legislatore all’articolo in disamina, è stata l’eliminazione della clausola di riserva “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, in ragione del quale tale delitto, in caso di concorso, poteva essere assorbito da quello di bancarotta fraudolenta patrimoniale di cui all’art. 216, comma primo, n. 1), del R.D. n. 267/1942; tale elisione riporta in auge la vexata quaestio dei rapporti tra il delitto di bancarotta fraudolenta e quello in analisi e, quindi, i dubbi circa la configurabilità di un concorso formale di reati per la ritenuta sussistenza di un rapporto di specialità reciproca[2], o di un concorso apparente di norme penali con la conseguente applicazione del principio di specialità di cui all’art. 15 del codice penale.
Infatti, con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 74/2000, la voluntas legis rispetto ai rapporti tra le figure criminose in esame era stata chiaramente manifestata in sede di relazione di accompagnamento al decreto legislativo, laddove si sottolineava che la clausola di riserva era finalizzata ad escludere il concorso tra il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte e di bancarotta fraudolenta, statuendo la prevalenza di quest’ultimo.
Tuttavia, pare necessario operare una riflessione in merito alla diversità strutturale e ontologica sussistente tra le due fattispecie, dovuta, in primo luogo, alla difformità del bene giuridico tutelato dalle norme. Infatti, mentre la disciplina sanzionatoria di cui all’art. 11 del D.Lgs. n. 74/2000 è posta a tutela dell’interesse erariale alla corretta e regolare percezione dei tributi, la fattispecie di bancarotta fraudolenta patrimoniale può essere annoverata tra i reati plurioffensivi posti a salvaguardia degli interessi patrimoniali della massa creditorum, garantita dai beni del soggetto ex art. 2740 del codice civile.
Inoltre, benché entrambe le fattispecie siano caratterizzate dalla finalità specifica di arrecare pregiudizio ai creditori o all’Erario, rispettivamente nei casi di bancarotta fraudolenta e sottrazione al pagamento dell’imposta, sussiste una sostanziale diversità del soggetto attivo. Infatti, mentre nel caso disciplinato dalla legge fallimentare assume rilevanza la condotta posta in essere dall’imprenditore in relazione al quale vi sia stata una pronuncia di insolvenza o di fallimento, la fattispecie fiscale è applicabile in capo a “chiunque”, avendo un debito tributario, tenta di sottrarsi fraudolentemente al relativo pagamento, sempre che il dovuto sia superiore a determinate soglie di punibilità.
Di
conseguenza, a seguito dell’eliminazione della clausola di riserva da parte
della manovra correttiva, non si esclude la possibilità di un concorso formale
eterogeneo tra i due reati, a differenza di quanto ancora previsto nella
fattispecie di occultamento e/o distruzione di documentazione contabile di cui
all’art. 10 del D.Lgs. n. 74/2000, clausola di riserva della fattispecie di
bancarotta fraudolenta documentale di cui all’art. 216, comma primo, n. 2), del
R.D. n. 267/1942.
[1] Con riguardo all’imposta sul valore aggiunto ed alle ritenute operate e non versate, la proposta può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento.
[2] Sono assai frequenti le ipotesi in cui la relazione tra fattispecie non è riferibile alla specialità unilaterale e, pur tuttavia, la loro sovrapposizione risulta tale, sul piano normativo, da rendere ben poco plausibile il ricorso al regime del concorso formale eterogeneo, che rappresenta la figura di confine rispetto al concorso apparente di norme. Tale situazione è ipotizzabile nei casi di specialità bilaterale o reciproca; ad esempio nel rapporto tra l’art. 2628 del codice civile (precedente alla riforma di cui al D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61) e l’art. 501 c.p.: il primo era speciale per specificazione quanto al soggetto attivo (“amministratori” rispetto a “chiunque”) e quanto all’oggetto materiale della condotta (“titoli della società”, rispetto “a merci o valori negoziabili”), mentre l’art. 501 del codice penale era, a sua volta, speciale per aggiunta essendo nella sua fattispecie incluso un dolo specifico (“fine di turbare il mercato interno”) estraneo a quella dell’art. 2628 del codice civile. Tale ipotesi controversa sorge quando tra due norme insiste un rapporto di specialità reciproca, ovvero quando uno o più elementi sono comuni ad entrambe, mentre altri elementi le rendono differenti l’un’altra in quanto speciali. Per maggiori approfondimenti si rinvia a G. Fiandanca-E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 1997, pag. 136; si afferma testualmente che “Tale relazione sussisterebbe allorché nessuna norma è generale o speciale, ma ciascuna è, ad un tempo generale e speciale, perché entrambe presentano, accanto ad un nucleo di elementi comuni, elementi specifici ed elementi generici rispetto ai corrispondenti dell’altra”.