Di fronte al terrorismo un’Europa cieca

Parigi, Beirut, Bamako, l’Airbus A321 della Kolavia, quante vite spezzate, quanto dolore.

Ma anche quanta rabbia, tanta. Tragedie annunciate, annunciate da tanti elementi che non si sono orribilmente voluti vedere.

Qualcosa non ha funzionato, o meglio qualcosa ancora non funziona. Da più parti e anche da queste pagine si potevano leggere i segnali di un’Europa complice e assolutamente, inspiegabilmente in ritardo rispetto a ciò che si stava muovendo in Medioriente e Africa.

Come si sono permessi i burocrati di questo Vecchio Continente di usare tanta e nefasta leggerezza? Come si sono permessi questo Occidente, questi governi inermi e inebetiti a fare così tanti e anomali errori in politica estera?

Come si sono permessi i potenti della terra d’inscenare una così enorme presa in giro e fare un G20 in Turchia, paese la cui ultima scelleratezza è stata quella di abbattere un aereo russo (per fomentare forse una reazione, affinché la Nato intervenga sul territorio?), dove partecipava anche l’Arabia Saudita, paese sunnita whabita, sostenitore del più radicale islamismo e finanziatore dei ribelli siriani e dei jihadisti in funzione anti sciita?

Basta. Basta a questa politica sciocca che ha visto per anni come unico nemico la Russia di Putin, sbagliando tutte le alleanze possibili e le amicizie strategiche.

Queste decisioni errate e il perseguimento di determinate visioni nello scacchiere internazionale hanno esposto ogni comune cittadino europeo e americano all’insicurezza e al timore.

Onore a Renzi che ha scelto una linea moderata e di non bombardamento e la memoria vada a Berlusconi, l’unico che si è opposto fino all’ultimo ad un intervento in Libia finalizzato alla caduta di Gheddafi, fatto questo che ha poi generato un mostro, uno dei tanti, tra Iraq, Afghanistan, Mali, Siria, Yemen.

C’è stato un fatto che nei giorni scorsi è stato presentato come straordinario e dal valore inestimabile: ora l’UE punta sull’Intelligence. Ora? Soltanto ora?

Difficile mantenere un decoroso self-control di fronte a tanta assurdità; complicato comprendere il motivo per il quale questa Unione che tanto dice e niente fa, non abbia pensato qualche anno addietro di creare una rete dinamica e una corrispondenza aperta tra i diversi servizi segreti almeno sul terrorismo e sul crimine organizzato, visto che la minaccia è assolutamente globale.

Si discute sul restringere un poco la libertà, la privacy del cittadino per favorire un maggiore controllo interno: va bene, noi italiani tra mafia e terrorismo non ci siamo mai fatti mancare nulla; sappiamo cosa sono nelle piazze e nelle strade le bombe, i sequestri, le stragi, dunque già abbiamo o almeno dovremmo avere quegli anticorpi e quelle leggi speciali già operativi o pronti ad entrare in vigore, purché però le cose vengano fatte con coerenza.

E’ lecito riflettere su questo, se si volge lo sguardo verso gli altri stati.

Si prenda ad esempio il Belgio e la sua splendida capitale, Bruxelles: come è possibile che nel cuore dell’Europa e delle Istituzioni Europee, in tempi di Foreign Fighters, conoscendo tutto ciò che stava ribollendo in Medioriente e Nord Africa, si sia lasciato crescere e fermentare un quartiere come Moleenbek, riconosciuto come vivaio del jihad europeo, a due passi dalla Grand Place?

E i servizi segreti dove stavano? Dopo il blitz di Domenica notte, le notizie di Lunedì 23 Novembre parlano chiaro: nel mirino della polizia belga non c’è soltanto questo assassino, questo Abdeslam Salah, ma ci sono almeno dieci terroristi.

Tutti a Bruxelles stavano? E soltanto adesso l’hanno scoperto? Dov’era l’intelligence?

Ma il quartiere già da tempo era noto come crocevia dell’Islam sunnita più radicale e allora, dov’erano i controlli, visto che sappiamo di cosa è capace il fondamentalismo islamico sunnita nelle sue vesti peggiori, tra salafismo, wahabismo e takfirismo? Non si è certo colpevoli a priori, ma in tempi agitati alcuni elementi si potrebbero monitorare, per prevenire e poi intervenire.

Prevenire, a questo servono i Servizi.

Stessa cosa vale per la Francia. Tale Abdelhalmid Abaaoud, capo del commando che ha colpito a Parigi, ha compiuto dall’inizio dell’anno almeno tre viaggi in Siria: difficile credere che ultimamente si possa andare in Siria in vacanza e non bisogna essere “una mente” eccezionale né per fare avanti indietro dall’Europa verso una delle zone attualmente più pericolose al mondo, in quanto se ti lasciano passare, passi, né per avere sentore che qualcosa in questo individuo non andava.

Inoltre, che Saint-Denis fosse come Molenbeek, una zona disagiata di Parigi con un’alta concentrazione di Islam radicale era risaputo e questi luoghi non si possono lasciare scoperti, devono essere monitorati.

Hollande, se lo ritiene utile può anche andare a bombardare in Siria, anche se cosa si bombarda non è chiaro, visto che i pozzi di petrolio nelle mani dell’Isis stanno ancora tutti lì funzionanti, ma se l’Intelligence fosse un poco più operativa e scaltra all’interno dei confini francesi, sarebbe forse più utile.

Simili “stand-by” si possono notare anche in Italia, purtroppo.

Notizia di Domenica 22 Novembre: alcuni report dei servizi di sicurezza affermano che nei centri di accoglienza c’è chi elude i controlli, chi riesce a scappare, chi salta le procedure di schedatura per perdersi tra le ombre della capitale. L’allarme terrorismo non può non passare di qui.

Ecco dunque i controlli a “tappeto” e i maxi blitz, come per esempio al centro di Via Cupa a Roma, per identificare gli ospiti.

E per fortuna che il prefetto Gabrielli ha affermato che questo controllo non sarà l’unico, poiché c’è il bene, ma c’è anche il male.

Se però si guardava con un certo distacco, senza enfasi, all’emergenza immigrati che si è scatenata questa estate, forse si poteva ritenere utile intervenire prima, in quanto non è di adesso l’allarme dei Foreign Fighters; non è da due settimane che è noto che i mercenari jihadisti europei andati a combattere la causa di quei burattinai che hanno messo a ferro e fuoco il Medioriente, ora stanno tornando, sono pericolosissimi, esperti, imbevuti di violenza, droga e fanatismo religioso.

Il nodo centrale è nei controlli alle frontiere, no l’immigrazione.

Alfano ha ragione a dire che il perimetro europeo esterno va blindato, che non basta più dare il documento e che verranno controllati i precedenti penali, ma ciò che ci si chiede è questo: solo dopo le stragi dell’ultimo mese ci si accorge di questa necessità? Sono almeno tre anni che si parla del ritorno in patria di questi mujaheddin.

La problematica sta anche nell’accordo di Dublino, perché esso prevede che un profugo deve fare domanda d’asilo nel primo paese in cui arriva e appunto, è la nazione di approdo che deve lavorare la richiesta. Moltissimi non hanno documenti e non possono essere identificati, altri hanno passaporti falsi e sappiamo che giusto pochi giorni fa è stata scoperta a Milano una cellula che si occupava solo di questo, di fornire documenti falsi; altri, pur di non restare nel paese di arrivo si rifiutano di farsi identificare, altrimenti sono costretti a restare lì senza poter raggiungere i parenti in Germania o Svezia, ad esempio.

Per valutare se effettivamente esistono questi presunti legami familiari, bisogna andarli a trovare e fare il test del Dna. Anche una persona con la coscienza pulita, nell’ultimo caso, se la darebbe a gambe pur di raggiungere finalmente il luogo desiderato.

Dunque, è come se si fosse pensata e creata una legislazione senza considerare il male che si può nascondere tra il bene; ma il male era lì, è lì.

E’ vero che se fuggi da una guerra è difficile preoccuparsi di prendere i documenti; diciamo che non manchi di farlo se hai buone intenzioni, se vuoi lavorare, se ti vuoi sistemare, se sei abituato a vivere bene, in certi contesti e soprattutto lo fai, se vieni da un paese che presuppone un sistema appropriato di anagrafe. Ma ci sono molti stati africani dove un tale ordine non è così impellente, per tanti motivi; però allora, questo deve presupporre che non vi siano malviventi o gente pericolosa tra chi scappa?

Il fatto è che non si può realizzare un trattato che prevede la non obbligatorietà dell’identificazione e che pone lo stesso riconoscimento come un impedimento, perché costringe a restare nel primo paese in cui si è messo piede.

In sostanza, si può parlare di restrizioni della privacy e della libertà, ma se l’Intelligence non funziona come dovrebbe, se la politica compie errori intollerabili nello scacchiere internazionale e se i documenti e le leggi non vengono redatti in maniera lungimirante e a 360 gradi, allora il contributo del cittadino non serve assolutamente a nulla; e poi, nel momento del pericolo e dell’aggressione è la persona comune, quella seduta magari al bar o danzante in un teatro durante un concerto o assorta in un centro commerciale o al ritorno da una vacanza, la prima a rimetterci, spesso la vita.