a cura di Giuseppe Camera

Proseguiamo nella pubblicazione di una serie di contributi in tema di “ne bis in idem”, facendo seguito al precedente contributo del 29 dicembre 2021.

3. IL CASO GRANDE STEVENS: LA CRISI DEL “DOPPIO BINARIO”

Il principio del ne bis in idem , eretto a diritto fondamentale dell’individuo dagli articoli 4 del Protocollo n.7 della CEDU e 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, a seguito della formulazione del concetto autonomo di “materia penale” , e sulla scorta dei c.d. Criteri Engel , si pone in netto contrasto con una dinamica piuttosto ricorrente nei diversi ordinamenti degli Stati membri , Italia inclusa , per cui un soggetto può essere sanzionato , per il medesimo fatto , tanto in “via” penale quanto per “via” amministrativa.

In ciò si sostanzia appunto un sistema a “doppio binario” : sistema in cui per le violazioni di norme relative ad un determinato settore dell’ordinamento, è previsto un doppio ordine di sanzioni, amministrative e penali, le quali possono essere combinate applicate in diversi modi: cumulativamente , quando per lo stesso fatto vengono applicate congiuntamente entrambe, oppure in maniera alternativa, quando, in presenza dei relativi presupposti indicati dalle norme, si applica l’una oppure l’altra.

Come abbiamo già visto però, alla luce dei Criteri Engel, per la qualificazione di una sanzione come “penale”, non rileva tanto il nomen iuris con la quale viene “etichettata” dal diritto interno quanto invece la sua natura sostanziale, da valutare in base ai famosi Criteria.

In sintesi, qualificare come amministrativo uno dei due “binari” non scongiura, di per sé, l’impatto con il ne bis in idem “europeo”. Il caso emblematico, rappresentante una “svolta epocale”1 nelle vicende relative l’interpretazione del ne bis in idem, è l’Affaire Grande Stevens2.

Le circostanze fattuali, dalle quali prende le mosse il decisum dei giudici di Strasburgo, sono ben note : la società Giovanni Agnelli S.A.p.A e IFIL INVESTEMENT S.p.A (oggi , EXOR) , nel 2005 , si servirono di un contratto di equity swap3, concluso in precedenza, con la banca d’affari Merill Lynch, da una società satellite del gruppo, al fine di mantenere saldo il controllo della società Fiat e contrastare gli effetti dell’aumento di capitale, quest’ultimo accompagnato dall’ingresso nella compagine sociale di otto banche finanziatrici.

La CONSOB4,

il 23 agosto 2005, avendo osservato anomalie nell’andamento dei titoli Fiat, chiese alla IFIL e alla Giovanni Agnelli S.A.p.A di dare comunicazione al mercato relativamente ad una possibile iniziativa posta in essere dalle società, al fine di evitare di perdere il controllo del gruppo Fiat;

Il sospetto della CONSOB era fondato se si pensa alla circostanza che, effettivamente, l’aumento di capitale, programmato per il mese successivo, avrebbe portato senz’altro alla perdita del controllo di Fiat.

Le due società, ottemperando alla richiesta dell’autorità, pubblicarono un comunicato, il 24 agosto 2005, omettendo di precisare alcune dovute informazioni, come il possibile utilizzo del contratto di equity swap;

Tale omissione venne prontamente rilevata dalla CONSOB.

LA CONSOB passò all’azione, contestando alle due società, al presidente di entrambe, Gianluigi Gabetti, al procuratore della Giovanni Agnelli S.A.p.A, Virgilio Marrone e all’avvocato Grande Stevens, di aver mancato di informare correttamente il pubblico e dunque, conseguentemente, di aver commesso un illecito amministrativo di manipolazione del mercato, previsto dall’art 187-ter del TUF.

L’Autorità di vigilanza concluse l’iter procedimentale il 9 febbraio 2007 , mediante l’adozione della delibera CONSOB n. 15760 , con la quale comminò pesantissime pene pecuniarie (5 milioni di euro al sig. Gambetti, 3 milioni al sig. Grande Stevens, 500.000 al sig. Marrone, 4 milioni e 500 mila euro alla Exor e 3 milioni alla società Giovanni Agnelli),  e severe sanzioni accessorie consistenti nel divieto di assumere incarichi di amministrazione, direzione e controllo di società quotate in borsa per sei, quattro e due mesi, rispettivamente ai sigg. Gabetti, Grande Stevens e Marrone.

La Corte di Appello di Torino, adita a seguito delle impugnazioni delle sanzioni irrogate da CONSOB, confermò la sussistenza dell’illecito amministrativo, il 23 gennaio 2008, riducendo in modo significativo sia l’ammontare delle sanzioni pecuniarie sia la durata delle sanzioni accessorie-interdittive.

Le sanzioni, ulteriormente impugnate avanti la Corte di Cassazione, vennero rese definitive a seguito di 5 pronunce della Suprema Corte a sezioni unite che rigettarono i ricorsi il 30 settembre 2009.

Sul “binario penale”, prima che le sanzioni di carattere amministrativo divenissero definitive, Gabetti, Marrone, Grande Stevens, la Exor (a quel tempo ancora Ifil) e la Giovanni Agnelli s.a.a. vennero rinviati a giudizio innanzi al Tribunale di Torino, per aver integrato, mediante le medesime condotte, la fattispecie prevista dall’art. 185 TUF, che punisce il reato di manipolazioni di mercato.

I soggetti sanzionati, lamentando la presenza di numerosi vizi nel procedimento svoltosi di fronte alla CONSOB, e sostenendo che il procedimento penale, per il reato corrispondente, avrebbe dovuto arrestarsi, a seguito del passaggio in giudicato delle sanzioni amministrative, adirono la Corte Europea dei diritti dell’Uomo per la violazione del principio del ne bis in idem.

Di fronte ai giudici di Strasburgo i principali motivi di doglianza furono due: la mancanza, nel procedimento svoltosi dinnanzi la CONSOB, delle garanzie processuali, tipizzate dall’art 6 CEDU che delinea le caratteristiche del processo “equo” e la violazione del ne bis in idem, previsto dall’art 4 del Protocollo n.7, da parte dell’ordinamento italiano.

Con la sentenza 4 Marzo 2014 la Corte di Strasburgo ha stabilito, in sintesi, che:

1) le sanzioni irrogate ai sensi dell’art 187-ter, comma 1, D.lgs. 24 Febbraio 1998, n. 58 hanno natura penale ai fini dell’art 6 CEDU

2) Il procedimento innanzi la CONSOB non soddisfa le esigenze proprie dell’equo processo, ed inoltre che la stessa Autorità di vigilanza non offre garanzie di imparzialità

3) L’assenza di udienza pubblica nel procedimento dinnanzi la Corte d’Appello rappresenta un vizio

4) La prosecuzione del procedimento penale, volto all’accertamento della violazione dell’art 185 TUF, dopo che le sanzioni amministrative erano divenute definitive, ha integrato la violazione del principio del ne bis in idem, così come sancito dall’art 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione.

La sentenza in commento ha acquisito definitività il 7 luglio 2014 a seguito del rigetto dell’istanza di rinvio presentata dal Governo Italiano, da parte della Grande Chambre.

 Ai fini della presente trattazione, risulta fondamentale, tenendo conto delle argomentazioni dei giudici di Strasburgo, eseguire una disamina che afferisca a due profili: la qualificazione delle sanzioni come “sostanzialmente penali” e la violazione dell’art 4 Prot. 7 relativamente al principio del ne bis in idem.

Quanto al primo profilo, la Corte EDU ha dovuto innanzitutto valutare se l’art 6 CEDU dovesse essere applicato al caso concreto.

L’art 6, rubricato “Diritto a un equo processo” stabilisce, che:

Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamata a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti […]”

Secondo tale formulazione, le garanzie ivi stabilite, troverebbero applicazione solo in presenza di un procedimento civile o penale.

La Corte, ha rilevato che, nonostante la qualificazione dell’ordinamento nazionale come sanzioni amministrative, le sanzioni che derivano dalla violazione dell’art 187-ter, comma 1, D.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, sono di natura sostanzialmente penale ai fini delle garanzie stabilite dalla Convenzione, ed in particolare le garanzie dell’equo processo (art. 6), della previsione per legge (art. 7) e del divieto di bis in idem (art. 4 Prot. 7).

I giudici di Strasburgo, motivando sulla base della propria giurisprudenza consolidata5, hanno ribadito che, anche nel caso in cui, una determinata sanzione, sul piano dell’ordinamento nazionale, non sia qualificata come “penale”, la Corte può affermare la natura “penale” della sanzione, ai fini della Convenzione, operando una valutazione sulla scorta dei famosi criteri Engel. Nel caso di specie, la sanzione pecuniaria comminata dall’art 187-ter ha una funzione “inequivocabilmente repressiva e deterrente rispetto a fatti che minano l’integrità dei mercati finanziari e la fiducia del pubblico nella sicurezza delle transizioni”6.

Le sanzioni pecuniarie, infatti, ha come massimo edittale la cifra di 5.000.000 di euro, ma, tale cifra può aumentare fino al triplo o, al massimo, fino a dieci volte il profitto conseguito ovvero le perdite evitate per effetto dell’illecito, nel caso in cui le stesse sanzioni sono ritenute “inadeguate” rispetto alla gravità dell’illecito.

Insieme alla sanzione pecuniaria, già così gravosa, si coniugano altre sanzioni di carattere interdittivo-inabilitante, della durata massima di 3 anni, ma capaci, in concreto, di determinare, per la posizione dei soggetti coinvolti nel mondo del lavoro, un grave pregiudizio.

Proprio per la natura e la severità delle sanzioni, sia pecuniarie sia interdittive, la Corte ha ritenuto che si trattasse di sanzioni penali e che, di conseguenza, l’oggetto del procedimento che ha portato alla loro irrogazione concernesse una “accusa in materia penale”.

Ed invero, in materia di market abuse, i giudici di Strasburgo si sono allineati all’interpretazione della Corte di giustizia dell’Unione Europea, che, nel caso Spector Photo Group NV e altri, aveva anticipato la Corte EDU, stabilendo che le sanzioni “amministrative” previste per gli abusi di mercato devono ritenersi “penali” agli effetti della CEDU, tenuto conto della “natura delle violazioni” e del “grado di severità”7 delle stesse.

Stabilita la natura “convenzionalmente penale” delle sanzioni, i giudici, seguendo un limpido iter logico-giuridico, hanno analizzato la compatibilità della procedura con le garanzie previste dall’art 6.

Con riferimento ai principi del contraddittorio e della parità delle armi tra accusa e difesa, capisaldi dell’equo processo garantito dall’art 6 CEDU, la Corte ha ritenuto che essi risultano violati per una serie di motivi: mancanza di una pubblica udienza; mancata comunicazione dell’Ufficio Sanzioni Amministrative; mancata possibilità di interrogare i testimoni, impossibilità di comparire personalmente e discutere oralmente davanti all’organo giudicante.

La Corte ha inoltre evidenziato come la CONSOB non goda di “sufficiente imparzialità” in quanto in capo ad essa, coesistono uffici di accusa, istruzione e giudizio.

Tenuto conto di queste premesse, i giudici di Strasburgo, per quanto concerne la concreta possibilità di imporre una sanzione “penale”, da parte di un’autorità amministrativa che non soddisfi le condizioni previste dall’art 6, richiamando la giurisprudenza del caso Menarini, hanno stabilito che ciò è possibile solo nel caso in cui, vi sia una successiva possibilità di adire un organo giurisdizionale (full iurisdiction) che possa operare un controllo giurisdizionale pieno.

Ed invero, nel caso di specie tale condizione risulta positivamente avverata poiché il procedimento sanzionatorio della CONSOB è opponibile innanzi alla Corte d’Appello, la quale integra i requisiti di indipendenza ed imparzialità e rappresenta organo di piena giurisdizione.

L’unico profilo censurato dalla Corte è stato il mancato svolgimento di un’udienza pubblica, poiché vizio in sede amministrativa non è stato “sanato” dinanzi alla Corte d’appello di Torino.

Invero, anche dinanzi al giudice penale non sono state svolte udienze pubbliche in cui si sia esplicato un vero e proprio contraddittorio: le parti hanno potuto produrre dei documenti ma senza alcuna discussione orale, avendo proceduto la Corte d’appello, esclusivamente in camera di consiglio.

 Alla luce di quanto esposto quindi, la Corte ha dichiarato sussistente la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU limitatamente al profilo del mancato svolgimento di un’udienza pubblica

Affermata la natura “sostanzialmente penale” dell’illecito amministrativo di manipolazione del mercato, i giudici hanno evidenziato un secondo profilo di violazione della Convenzione, riguardante l’art 4 Prot. 7, il quale sancisce il divieto di bis in idem.

Preliminarmente la Corte di Strasburgo ha affrontato la questione relativa alla “riserva” agli articoli 2 e 4, apposta dall’Italia al momento della ratifica del Protocollo8, secondo cui le garanzie dei predetti articoli si applicano solo agli illeciti, ai procedimenti e alle decisioni che la legge nazionale qualifica come “penali”.

La Corte ha ribadito che una riserva , ai fini della propria validità deve presentare le seguenti caratteristiche: 1) deve essere fatta al momento in cui vengono firmati o ratificati la Convenzione o i suoi protocolli; 2) deve riguardare norme determinate , in vigore al momento della firma o ratifica; 3) non deve trattarsi di una riserva di carattere generale, ovvero troppo vaga o troppo ampia per poterne delineare con precisione il senso e l’ambito di applicazione  4) deve contenere una breve esposizione della legge interessata9, che rappresenta, al contempo, “un elemento di prova ed un fattore di certezza giuridica”10.

Tali condizioni sono espressamente contenute all’interno dell’art 57, paragrafo 1, della Convenzione, che stabilisce:

Ogni Stato, al momento della firma della presente Convenzione o del deposito del suo strumento di ratifica, può formulare una riserva riguardo a una determinata disposizione della Convenzione, nella misura in cui una legge in quel momento in vigore sul suo territorio non sia conforme a tale disposizione. Le riserve di carattere generale non sono autorizzate ai sensi del presente articolo.

Ogni riserva emessa in conformità al presente articolo comporta una breve esposizione della legge in questione.”

La Corte EDU ha ritenuto nulla la riserva apposta dall’Italia in quanto essa, omettendo l’indicazione di “una breve esposizione” della legge incompatibile con l’art 4 settimo Protocollo CEDU, non soddisfa le esigenze di certezza dell’art 57.

Una volta risolta la questione relativa alla riserva, i giudici di Strasburgo smantellano l’impianto difensivo del Governo italiano.

La linea difensiva del governo italiano faceva perno su questo assunto: il reato di manipolazione del mercato previsto dall’art 185 TUF e l’illecito amministrativo previsto dall’art 187-ter TUF non sono identici in quanto, mentre il primo richiede l’elemento soggettivo del dolo e l’idoneità concreta ad alterare gli strumenti finanziari, per l’omonimo amministrativo è sufficiente l’idoneità astratta e la colpa.

La Corte EDU, richiamando il proprio costante orientamento a partire dalla sentenza Zolotoukhine, secondo il quale la coincidenza dei fatti va valutata in senso storico naturalistico (idem factum), ha ritenuto che i fatti concreti che hanno dato luogo ai due procedimenti sono i medesimi ai fini della applicabilità della garanzia Convenzionale.

In particolare, dinanzi alla CONSOB, i ricorrenti erano accusati di non aver fatto menzione, nei comunicati stampa del 24 agosto 2005, delle attività di negoziazione portate avanti con la banca Merrill Lynch, e per tali fatti condannati dalla CONSOB e dalla Corte d’appello di Torino. Dinanzi ai giudici penali, l’accusa era di avere dichiarato, negli stessi comunicati, che la Exor non aveva avviato trattative concernenti la scadenza del contratto di finanziamento, mentre nella realtà l’accordo che modificava l’equity swap era già stato esaminato e concluso.

Secondo i giudici di merito una simile informazione sarebbe stata tenuta nascosta per evitare un probabile crollo del prezzo delle azioni FIAT.

La Corte, accertata la natura penale del primo procedimento, delle sanzioni irrogate e la “medesimezza” dei fatti oggetto dei due giudizi e dei soggetti destinatari, conclude per una piena e manifesta violazione del principio del ne bis in idem.

Terminata la disamina del decisum, è possibile affermare che la sentenza Grande Stevens c. Italia ha causato una profonda crisi dei sistemi a doppio binario sanzionatorio, dispiegando i suoi effetti anche in settori diversi dal market abuse, come quello del diritto penale tributario.

Come affermato da parte della dottrina11, il doppio binario sanzionatorio in materia tributaria è stato infatti il primo ambito ad essere attraversato da pesanti dubbi di compatibilità con il principio del ne bis in idem. (segue)


1 Così N.MADÌA , Ne bis in idem europeo e giustizia penale cit., p. 40;

2 Corte EDU, Sez IV, 4 marzo 2014 , Grande Stevens e altri c. Italia, Ric. N. 18640/10

3 Ovvero un contratto che permetteva lo scambio della performance di un’azione contro un tasso di interesse senza anticipo in denaro.

4 La CONSOB è la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, venne istituita nel 1974 ed è un’autorità amministrativa indipendente, dotata di personalità giuridica che ha il suo compito principale nel controllo delle attività di Borsa italiana. Si occupa di tutelare gli investitori che operano in borsa e di garantire l’efficienza all’interno del mercato mobiliare italiano.

5 Ex multis : Corte EDU  Engel e altri c. Paesi Bassi, § 82, Öztürk c. Germania §§ 46-56 , Menarini Diagnostics s.r.l c. Italia §§ 39-42

6 Così G.M.FLICK- V.NAPOLEONI , Cumulo tra sanzioni penali e amministrative: doppio binario o binario morto? “ materia penale” , giusto processo e ne bis in idem nella sentenza della Corte EDU , 4 marzo 2014 , sul market abuse, in www.rivistaaic.it, 2, 2014, p. 2-3

7 Corte giust. , 23 dicembre 2009, causa C-45/08, Spcetor Photo Group NV e altri, § 42

8 Tale dichiarazione dell’Italia è simile a quelle fatte da Germania , Francia e Portogallo.

9 Cfr. Corte EDU, decisione Põnder e altri c. Estonia , 26 aprile 2005 , n. 67723/01

10 Cfr. Corte EDU, Weber c. Svizzera, 22 maggio 1990, n. 11034/84 , § 38

11 A.ALESSANDRINI , Prime riflessioni sulla decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo riguardo alla disciplina italiana degli abusi di mercato, in Giur. Comm., 2014, p. 855/I; F.D’ALESSANDRO, Tutela dei mercati finanziari e rispetto dei diritti umani fondamentali, in Dir. Pen. Proc.,2014, p. 614