di Francesco Serra
Con la Sentenza del 20 gennaio 2022 n. 2245, la terza Sez. della Corte di Cassazione ha affrontato il tema del rispetto del principio del ne bis in idem di matrice convenzionale, in ossequio all’art. 4 prot. 7 CEDU, con specifico riguardo al rapporto intercorrente tra il reato di dichiarazione infedele e l’illecito amministrativo previsto dall’art. 1 co. 2 e 5 co. 4 d.lgs. n. 471/97.
Il ricorso proposto trae origine dall’annullamento della Sentenza emessa dalla Corte di appello di Milano in data 21.01.21 che, rigettando la prodromica impugnazione, ha confermato del ricorrente alla condanna in via principale alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione, oltre pene accessorie, giunte con Sentenza dell’11/02/2019 del Tribunale di Monza per il reato di cui all’art. 4, d.lgs. n. 74 del 2000, a lui ascritto poiché, nel chiaro obiettivo di evadere le imposte sul reddito, aveva indicato nella dichiarazione annuale “Mod. Un. 2012”, elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, così da omettere il dato relativo ai redditi derivanti da attività illecita – ossia distrazione di somme in danno di società fallita – percepiti nel 2011, per l’importo complessivo apri ad euro 1.408.800,00.
I 3 motivi sottesi al ricorso si sono sviluppati nel modo che segue: col primo motivo ha lamentato “la violazione e la violazione degli artt. 1 e 4, d.lgs. n. 74 del 2000, 43 e 47, cod. pen., nonché il conseguente vizio di motivazione con riferimento al dolo specifico di evasione”; invero la Corte d’Appello lo ha ritenuto sussistente, sine dubio, senza tuttavia individuare “ogni altra ipotesi di formazione della volontà dell’autore prospettata dalla difesa ed anzi fornendo una risposta illogica e contraddittoria”. In realtà, a detta del ricorrente, il motivo che ha spinto lo stesso ad omettere gli elementi attivi non più nella sua materiale disponibilità è da ricercarsi non già nell’intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte, quanto piuttosto al timore di cadere in un nuovo errore di fatto; peraltro avrebbe vantato il proprio diritto a portare gli elementi attivi non più nella sua disponibilità con la dichiarazione dell’anno successivo in riduzione, stante la neutralità della propria condotta ai sensi dell’art. 1, lett. f), d.lgs. n. 74 del 2000.
Col secondo motivo ha dedotto “la violazione dell’art. 649 cod. proc. pen. e del divieto di bis in idem come interpretato dalla Corte EDU (art. 4, Prot. n. 7, della Convenzione EDU) e dalla CGUE (art. 50, CFDUE)”. Orbene, in pendenza di giudizio penale, essendo intervenuta la sentenza n. 4090/2019 della CTR di Milano, il cui abbrivio è il medesimo di quello penale, scaturente dalla distrazione di somme della società fallita di cui alla premessa e per la quale il ricorrente è stato condannato con giudizio separato, il ricorrente fa propri, a suffragio della predetta deduzione, gli approdi della Corte EDU sulla necessità di riunire i procedimenti perché connessi “sia temporalmente sia sostanzialmente nel merito1“.
Oltre a ciò, nonostante le contraddittorie motivazioni in ordine al mancato accoglimento del “divieto di ne bis in idem”, si addita altresì alla Corte territoriale l’omessa verifica sulla complessiva proporzionalità della sanzione, atteso che la somma irrogata a titolo di sanzione, con riferimento ai criteri di cui all’art. 135 c.p., risulta essere parimenti equivalente a sette anni di reclusione circa.
Con il terzo ed ultimo motivo, deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio ed al diniego delle circostanze attenuanti generiche, che la Corte d’Appello di Milano non ha inteso applicare in conseguenza della gravità del fatto e dei precedenti penali del ricorrente autore.
Con il Decisum in commento, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso limitatamente al secondo motivo, assorbendone anche il terzo.
Partendo dalla manifesta infondatezza del primo motivo ed in considerazione dell’art. 14, comma 4, legge n. 537 del 1993, i Supremi Giudici hanno dato seguito all’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale sul punto partendo dal presupposto che il “sequestro o la confisca escludono la tassazione dei proventi da reato solo se eseguiti nello stesso periodo di imposta in cui si è verificato il presupposto impositivo, dal momento che solo in tale ipotesi i provvedimenti ablatori determinano, in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., una riduzione del reddito imponibile (Sez. 3, n. 18575 del 14/02/2020, Rv. 279500 – 01; Cass. civ., Sez. 5, n. 28375 del 05/11/2019, Rv. 655895; Cass. civ., Sez. 5, n. 28519 del 20/12/2013, Rv. 629332; Cass. pen., Sez. 5, n. 7411 del 19/11/2009, Rv. 246095)”. In considerazione dell’assunto di cui all’art. 14, comma 4, legge n. 537 del 1993, la Cassazione, evidenziando la palese insussistenza dell’incertezza e del margine labile di errore in relazione al precetto oggetto di violazione del ricorrente, rimarca con ancora più forza il dato in forza del quale “il convincimento del ricorrente circa “la liceità del proprio agire fosse alimentata da un’errata percezione della realtà di fatto, andando in tal senso ad escludere il dolo specifico di evasione”, perciò allineandosi al dato proveniente da: “(Sez. 3, n. 23810 del 08/04/2019, Rv. 275993 – 02, secondo cui ai fini dell’integrazione del reato di dichiarazione infedele, previsto dall’art. 4 del d.lgs. 74 del 2000, la mancata conoscenza, da parte dell’operatore professionale, della norma tributaria posta alla base della violazione penale contestata, costituisce errore sul precetto che non esclude il dolo ai sensi dell’art. 5 cod. pen., salvo che sussista una obiettiva situazione di incertezza sulla portata applicativa o sul contenuto della norma fiscale extrapenale, tale da far ritenere l’ignoranza inevitabile; nello stesso senso, Sez. 7, n. 44293 del 13/07/2017, Rv. 271487 – 01)”.
Peraltro, a parere dei Supremi Giudici, la deduzione in ordine alla neutralità della condotta, trattandosi di “imposta teorica” in base all’art. 1, lett. f), d. lgs. n. 74 del 2000, risulta essere assolutamente “suggestiva”, dal momento che il predetto disposto normativo insiste nel ritenere: “imposta evasa quella teorica e non effettivamente dovuta collegata a una rettifica in diminuzione di perdite dell’esercizio o di perdite pregresse spettanti e utilizzabili”.
Quanto al secondo motivo di ricorso, assorbente il terzo motivo, i Supremi Giudici sono approdati ad un convincimento certamente favorevole al contribuente ricorrente partendo dalla possibile applicazione al caso in esame “del principio di specialità di cui all’art. 19, d.lgs. n. 74 del 2000, alla luce dei rapporti strutturali tra fattispecie (Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, Rv. 269668 – 01; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248864 – 01)”.
Orbene, stante l’illustrazione normativa di cui agli artt. 1, comma 2 (per quanto riguarda le imposte sul reddito e sulla produzione), e 5, comma 4 (in materia di IVA) del d.lgs. n. 471 del 1997, allorquando sia presentata nella dichiarazione annuale un’imposta inferiore a quella dovuta, con riferimento all’integrazione dell’illecito amministrativo “non è richiesto il dolo specifico di evasione, che qualifica il delitto di “dichiarazione infedele” di cui all’art. 4, d.lgs. n. 74 del 2000, né che il contribuente indichi “elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti”: è sufficiente che, anche solo per colpa, dichiari un reddito o un’imposta inferiori al dovuto, non rilevando l’entità dell’imposta evasa”. Continuando nel ragionamento gli stessi, soffermandosi sul dolo specifico e le soglie di punibilità quali elementi specializzanti la fattispecie penale in disamina, hanno aggiunto di contro che è altrettanto vero come: “la condotta integrante gli illeciti amministrativi consiste nell’indicare un reddito o un’imposta inferiori al dovuto, non gli elementi attivi (componenti cioè del reddito: art. 1, comma 1, n. 2, d.lgs. n. 74 del 2000), e/o quelli passivi fittizi che concorrono alla formazione del reddito. Sul piano strutturale, dunque, non v’è piena sovrapposizione tra le due fattispecie. La condotta del ricorrente, dunque, integra due diversi fatti, autonomamente e separatamente sanzionati in sede penale e amministrativa”; la conseguenza di tutto ciò risulterà essere la non esclusione ai fini del divieto del “bis in idem” di cui all’art. 4, Prot. n. 7, CEDU del fatto addebitato, potendosi riconoscere quest’ultimo nel medesimo piano sotto il profilo “sostanziale/naturalistico”.
Continuando nella Sentenza in rassegna viene citata la oramai granitica Giurisprudenza della Corte EDU, in particolare la Sentenza “Grande Camera, 10/2/2009, caso Sergey Zolotukhin contro Russia, la Corte EDU”, che nel trattare l’annoso tema del divieto del ne bis in idem è messo in evidenza come non tutti gli stati utilizzino lo stesso criterio applicativo. Con ciò la Corte EDU è giunta alla conclusione che: “è la distinzione tra i termini “stessi atti” o “stessi fatti”, da un lato, e “stesso reato”, dall’altro, è stata ritenuta sia dalla CGUE che da quella Inter-americana un elemento importante a favore dell’adozione di un approccio basato strettamente sull’identità degli atti materiali e del rifiuto della qualificazione giuridica di tali atti giudicata come irrilevante. Un tale approccio interpretativo, secondo le due Corti, è più favorevole perché l’autore del reato saprebbe che, una volta condannato o assolto, non deve temere ulteriori procedimenti penali per la medesima condotta o il medesimo fatto”, di fatto insistendo su un approccio interpretativo di tipo estensivo e non restrittivo; difatti, concludendo sul punto i Giudici della legittimità, convenendo con la giurisprudenza della Corte EDU, ribadiscono come: “, l’art. 4 del Protocollo n. 7 deve essere interpretato nel senso che il reato è il medesimo se i fatti che lo integrano sono identici oppure sono sostanzialmente gli stessi, dovendosi intendere per fatto «l’insieme di circostanze di fatto concrete che coinvolgono lo stesso imputato e che sono inestricabilmente legate tra loro nel tempo e nello spazio, la cui esistenza deve essere dimostrata al fine di ottenere una condanna o avviare un procedimento penale2“.
Ciò detto, nel caso di specie, la presentazione di dichiarazione infedele costituisce “un unico fatto materiale che viola due disposizioni tra loro diversamente sanzionate, allo stesso modo in cui un’unica condotta può integrare due reati diversi in concorso formale tra loro”.
A tacer d’altro, facendo riferimento al divieto del ne bis in idem in ipotesi di litispendenza, esso non si estende in via applicativa, “quando cioè una medesima persona sia perseguita o sottoposta contemporaneamente a più procedimenti penali per il medesimo fatto”, giacchè la norma fa riferimento specifico ad una sentenza definitiva – di condanna o di assoluzione ex art. 4, Prot. n. 7, Convenzione EDU3.
Parimenti l’interruzione del secondo procedimento in posizione parallela rispetto al primo, sia esso di condanna o di assoluzione, rifacendosi alla predetta giurisprudenza sovranazionale, non comporta il divieto del ne bis in idem, verificandosi quest’ultimo, per converso, “se il secondo procedimento prosegue il suo corso4“.
Di rilevanza fondamentale per la realizzazione del divieto risulterà essere quindi la “discontinuità” tra i due procedimenti, motivo per cui la continuità si appaleserà ed esisterà allorchè sia verificabile una connessione sostanziale e temporale tra l’adozione del provvedimento amministrativo ex lege e la conseguente condanna penale, ovvero “quando cioè presupposto e condizione per l’adozione del provvedimento amministrativo sia esclusivamente la condanna inflitta in quella sede (oltre le sentenze già citate, cfr., altresì, Corte EDU, Sez. 4, 17/2/2015, caso Boman c. Finlandia e Corte EDU, Sez. 3, 4/10/2016, caso Rivard c. Svizzera)”.
Proprio sotto questo profilo, i Giudici di P.zza Cavour hanno osservato come terreno fertile sul quale si forma e muove il predetto principio è proprio quello fiscale e tributario.
Attesa l’adozione del doppio sistema sanzionatorio in buona parte dei paesi dell’Unione Europea, la Cassazione, rifacendosi alla Giurisprudenza EDU ribadisce come “La Convenzione EDU non proibisce che per un medesimo fatto, qualificabile come reato secondo i propri canoni, vengano instaurati processi diversi, contemporaneamente o successivamente definiti con sentenza; da questo punto di vista gli Stati possono legittimamente adottare risposte complementari per sanzionare il medesimo fatto (convenzionalmente definibile come reato) attraverso procedimenti che, formando un insieme coerente, diano una risposta a tutti gli aspetti del problema purché ciò non si traduca in un onere eccessivo per l’individuo interessato. L’art. 4 del Protocollo n. 7 è impedire l’ingiustizia di perseguire o punire due volte una persona per la medesima condotta, ma ciò non rende illegali gli ordinamenti che adottano un approccio “integrato” al fatto-reato sociale che determini reazioni legali parallele da parte di autorità diverse e per scopi diversi”.
Non a caso si è dovuti intervenire tempestivamente sul concetto di “stretta connessione sostanziale e temporale” tra procedimenti, obbligando lo Stato a dimostrare, scientemente: “ l’esistenza di tale connessione in base ai vari fattori tra i quali (congiuntamente): – il perseguimento di finalità complementari e la valutazione, non solo in astratto ma anche in concreto, dei diversi aspetti della condotta illecita oggetto di scrutinio; la prevedibilità che la medesima condotta dia origine, sia giuridicamente che di fatto, a due diversi procedimenti; la minimizzazione del rischio, per quanto possibile, di duplicazioni nella raccolta e nella valutazione delle prove, in particolare attraverso un’adeguata interazione tra le varie autorità competenti per determinare che l’accertamento dei fatti in uno dei due procedimenti venga utilizzato anche nell’altro; l’esistenza di un meccanismo di compensazione che consenta di tener conto, in sede di irrogazione della seconda sanzione, degli effetti della prima così da evitare che la sanzione complessivamente irrogata sia sproporzionata ”.
Naturalmente continuano i Giudici, per essere soddisfatto il divieto del ne bis in idem in relazione ai requisiti stabiliti dalla Corte, non è bastevole la sola connessione sostanziale, ma abbisogna di una simultanea connessione temporale, dal momento che: “Gli Stati possono optare per lo svolgimento progressivo quando ciò sia giustificato da ragioni di efficienza e di corretta amministrazione della giustizia e non provochi alla persona interessata un pregiudizio sproporzionato, purché la connessione temporale sia garantita. Tale connessione deve essere sufficientemente stretta da tutelare l’individuo dall’incertezza e dai ritardi e dall’eccessivo protrarsi del procedimento nel tempo, anche lì dove l’ordinamento interno prevede uno schema “integrato” che separa gli aspetti amministrativi da quelli penali. Più debole è il collegamento nel tempo, maggiore è l’onere per lo Stato di spiegare e giustificare qualsiasi ritardo che possa essere imputabile alla conduzione del procedimento”, così da non dare l’idea che per verificarsi del divieto i due procedimenti debbano essere condotti simultaneamente, dall’inizio alla fine.
Nel caso de quo, i due procedimenti furono trattati pressoché nello stesso periodo temporale, e per un periodo di 4 anni sovrapponendosi proceduralmente tra essi, comprovando così la sussistenza della connessione temporale tra i procedimenti che per converso, la Corte d’appello di Milano non ha inteso riconoscere.
A ciò si aggiunga che, rispetto ai motivi aggiunti proposti dal ricorrente in ordine alla prevedibilità, il Supremo Collegio li ha ritenuti infondati sul presupposto che le sanzioni fossero previste da norme preesistenti al fatto, di tanto si sarebbe potuto ritenere che: “la prevedibilità, nel caso concreto, dipendesse dalla indisponibilità degli elementi attivi alla data di presentazione della dichiarazione per le ragioni già indicate in sede di esame del primo motivo”.
Quanto alla natura della sanzione amministrativa applicata di cui agli artt. 1, comma 2, e 5, comma 4, D.lgs. 471/1997, il Supremo Collegio ne rileva la natura penale, soprattutto alla luce dei cc. dd. “Engel criteria” elaborati dalla Corte EDU – conscio della cornice edittale in cui opera, partendo da un minimo del 90% a un massimo del 180% della maggiore imposta dovuta – per un importo superiore a euro 600.000, ben superiore al 30% dell’imposta evasa,
Ciò detto, il carattere penale della sanzione irrogata scaturirebbe, in buona sostanza, da “un’evidente componente dissuasiva (in sede di previsione astratta) e afflittiva (in sede concretamente applicativa), non essendo finalizzata al risarcimento/indennizzo del danno cagionato dal contribuente”.
Peraltro, nel formulare ultronee considerazioni sui criteri di proporzionalità circa l’ambito applicativo del trattamento sanzionatorio per il fatto-reato posto all’attenzione dei Giudici della legittimità, i predetti hanno ritenuto opportunamente, quale strumento consono al fine di ottemperare a detta esigenza, quanto riportato nel dettato normativo di cui all’art. 135 c.p., a mente del quale andrebbe a fornire “l’unità di misura della sanzione (sostanzialmente e formalmente) penale applicabile per il medesimo fatto storico”.
Nel caso di specie, e avendo come metro di paragone quanto previsto dall’art. 135 c.p. – in forza del quale 250 euro equivarrebbero a un giorno di pena detentiva – si appaleserebbe una sanzione irrogata, per un totale di oltre Euro 600.000, corrispondente a più di sette anni di reclusione, di gran lunga superiore per il medesimo fatto e per un complessivo trattamento sanzionatorio, pari a più di otto anni di reclusione.
Pertanto, impregiudicata l’immodificabilità della sanzione amministrativa, la stessa non rimanere inalterata al fine di garantire una ferma proporzionalità del trattamento sanzionatorio complessivo in sede di commisurazione della pena.
I Supremi Giudici, allo scopo di adeguare la sanzione penale in questa direzione, suggeriscono alternativamente per un verso l’applicazione delle attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis c.p., per altro verso, avendo compiuto una valutazione a priori delle condizioni economiche in cui versa il soggetto agente, un adeguamento del trattamento sanzionatorio in via applicativa sia di carattere retributivo, sia dissuasivo-rieducativa.
Ovviamente, il principio di proporzionalità della pena complessiva, ribadisce la Corte, non andrà ad applicarsi laddove la sanzione amministrativa sia stata pagata da un soggetto “diverso dall’autore del reato, non essendovi, in tal caso, nulla da compensare”.
Proprio sulla fattispecie sopra menzionata si è espresso in Sentenza il seguente principio di diritto ribadendo che “il meccanismo di compensazione non si applica se la sanzione amministrativa è stata precedentemente pagata da persona diversa dal reo”.
In conclusione, attesa l’esclusione della condanna del ricorrente nell’aver trasgredito il divieto di ne bis in idem di carattere convenzionale, è pur vero che la Corte d’Appello di Milano non ebbe a intervenire attraverso procedura compensativa, nè avendo tenuto in debito conto, nella commisurazione della pena, della sanzione irrogata al ricorrente imputato per il fatto medesimo.
Di talché, alla luce di quanto sopra rassegnato, la terza Sezione della Suprema Corte, ha annullato la Sentenza di secondo grado, limitatamente al trattamento sanzionatorio rinviando per un nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Milano, rigettando nel resto i motivi di gravame, nonché dichiarando l’irrevocabilità della Sentenza in ordine alla responsabilità penale dell’imputato.
1 Cfr. Sentenza in commento.
2 Nelle more della Pronuncia, nel convenire con la Giurisprudenza Sovranazionale, la Cassazione si è riportata ai propri precedenti affermando in buona sostanza che: “l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Rv. 231799 – 01; Sez. 7, n. 42994 del 20/10/2021, Rv. 282187 – 01; Sez. 4, n. 54986 del 24/10/2017, Rv. 271717 – 01”.
3 Cfr. Corte EDU, Grande Camera, 10/2/2009, caso Sergey Zolotukhin c. Russia, §§ 110-111;
4 Nello specifico la Cassazione in commento si rifà alla Corte EDU, Sez. 4, 18/10/2011, caso Tomasovie c. Croazia, §§ 29-32; Corte EDU, Sez. 4, 14/1/2014, caso Muslija c. Bosnia ed Herzegovina, §§ 29-32; Corte EDU, Sez. 4, 20/5/2014, Nyk.Jnen c. Finlandia, §§ 47-54, e Corte EDU, Sez. 4, 20/5/2014, caso Glantz c. Finlandia, §§ 57-64; le ultime due, disquisiscono “in ordine all’applicazione di sanzioni amministrative e sovrattasse per la mancata indicazione di ricavi nella dichiarazione dei redditi e di successiva condanna penale per frode fiscale”.