Dimissioni e prospettive

La netta affermazione del “No” in occasione del referendum costituzionale ha innescato la già contemplata serie di eventi cui stiamo assistendo da qualche giorno.

Ovverosia: caduta dell’esecutivo, palla a Mattarella, inquietante “ciapa no” per la formazione di un governo di scopo, Italicum si – Italicum no e, dopo la giornata di intermezzo referendario, l’apertura di una nuova, cruenta campagna elettorale.

Gli oppositori di Renzi, prima ancora che della riforma, sono riusciti a coinvolgere nella partita milioni di italiani (l’affluenza ha toccato la quota del 70% degli aventi diritto) e il plebiscito per il No, chiusosi con un perentorio 60 a 40 ha assunto una valenza fatale a Renzi. Anche perché – ricordiamo – per il referendum costituzionale confermativo non era richiesto alcun quorum e il fatto che abbiano preso parte così tanti aventi diritto ha reso l’appuntamento non solo uno “spot per la democrazia” ma una vera e propria resa dei conti.

Ne ha fatto le spese in prima persona Renzi, che, prendendo atto del proprio fallimento – anche dovuto all’errore di personalizzare la questione trasformando un affare giuridico in uno prettamente politico – ha rimesso il proprio mandato nelle mani di Mattarella, mandando in brodo di giuggiole le opposizioni di ogni ordine e grado.

Oltre a quelle doverose e legittime modello Lega, l’opposizione interna al PD è quella che ha tirato il sospiro di sollievo più lungo. La politica italiana è un mostro siffatto. C’è da temere più dai propri compagni di banco che da quelli di fronte. Del resto lo stesso Renzi ne sa qualcosa a spese di Letta, pertanto indulgere al pietismo e al vittimismo in difesa dell’ormai ex premier è pratica inadeguata. In ogni caso, all’interno del PD la sconfitta di Renzi al referendum ha significato la possibilità di molti potentati alla D’Alema di presentarsi al congresso del 2017 in posizione di forza mentre, se si fosse imposto il fronte del Sì, sarebbero stati spazzati via inesorabilmente. Di qui la farisaica, strenua lotta in difesa della Costituzione-totem, argomento dato in pasto trasversalmente alle plebi col solo scopo di mantenere posizioni, privilegi, voce in capitolo, in un’ ottica essenzialmente di potere materiale. Null’altro. Così nel PD. Ma anche fuori di esso.

La rottura del patto del Nazareno a seguito della elezione di Mattarella imposta da Renzi a Berlusconi ha impedito al governo di giungere a una riforma condivisa che ne avrebbe indubbiamente agevolato l’imprimatur da parte degli italiani, con buona pace di tutti i ferri vecchi della prima repubblica, a cominciare dall’ANPI. E così Forza Italia, che nelle figure dei suoi falchi (si pensi al rancoroso Brunetta, che da quando Mattarella ha preso posto al Quirinale ha giurato a Renzi vita maledetta), malgrado le perplessità di un ormai malandato Cavaliere, hanno eroso un notevole ulteriore consenso popolare alla riforma costituzionale che, rotto il famoso patto, non avrebbero mai potuto permettere divenisse realtà, con l’apoteosi di Renzi. L’avrebbero pagata anche loro pesantemente in termini elettorali. Come pure Lega, M5S, e la miriade di altri soggetti politici in competizione. E per organi costosi parassitari Cnel, le provincie e il Senato gemello della Camera.

Altro che difesa della Costituzione, palla al piede per tutti coloro che hanno ambizioni di governo. Le ragioni era altre. E presto salteranno fuori.